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“Oggi, 9 marzo, al cinema Trevi, tavola rotonda “Il cinema giapponese tra gli anni Cinquanta e la contestazione”
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Nell'ambito della rassegna sul cinema giapponese (guarda il programma completo) il 9 marzo, alle 20.45, tavola rotonda su Il cinema giapponese tra gli anni Cinquanta e la contestazione con Marco Del Bene, Donatello Fumarola, Enrico Ghezzi, Marco Müller, Roberto Silvestri
 
a seguire
L'isola nuda (1960)
Regia: Kaneto Shindo; soggetto e sceneggiatura: Kaneto Shindo; fotografia: Kiyomi Kuroda; musica: Hikaru Hayashi; montaggio: Toshio Enoki; interpreti: Nobuko Otowa, Taiji Tonoyama, Shinji Tanaka, Masanori Horimoto; origine: Giappone; produzione: Kindai Eiga; durata: 94'
Quasi completamente muto, L'isola nuda è, secondo le parole del regista, «un'elegia del lavoro, un inno alla forza di volontà del singolo». I protagonisti della pellicola sono un uomo e una donna, marito e moglie, che vivono con i due figli su un'isola, dove coltivano la terra. Per sopravvivere, i protagonisti ogni giorno attraversano il mare e prelevano dalla terraferma l'acqua, necessaria al loro sostentamento e all'irrigazione delle coltivazioni. Quando il figlio maggiore si ammala, il padre attraverserà nuovamente il mare, questa volta alla ricerca di un medico. In pochi nel 1960 avrebbero immaginato che L'isola nuda, una pellicola priva del tutto di dialoghi e il cui nucleo pulsante è la ciclicità della vita contadina, sarebbe divenuta un enorme successo al botteghino, consentendo di salvare dalla bancarotta la piccola società indipendente che l'aveva prodotta, la Kindai Eiga Kyokai (Associazione del Cinema Nuovo). Tra gli autori più fieramente indipendenti del cinema giapponese, Kaneto Shindo cerca qui di portare a termine, usando le stesse parole del regista, «un poema cinematografico che cerca di raffigurare la vita di esseri umani che lottano come formiche contro le forze della natura». «Un tranche de vie, di superba fattura formale, della vita di una famiglia che vive su un isola, a pochi chilometri di distanza dalla terraferma. Shindo, che ben conosce la lezione del cinema di Ejzenstejn, riprende la vita rurale esaltandone ogni piccolo gesto, e si sofferma a lungo sulla resa della fatica del lavoro, lasciando che i due protagonisti principali risalgano innumerevoli volte dal mare con i loro secchi ricolmi d'acqua, entrando sempre dal basso ma a testa alta nell'inquadratura, fino ad occuparla del tutto. La staticità della messinscena mette continuamente al centro del discorso l'uomo, la sua forza di volontà (e anche quella fisica) e l'insopprimibile desiderio di sopravvivenza. Gli unici momenti in cui la macchina da presa riesce a librarsi sono le inquadrature aeree, che aprono e chiudono il film e mirano a sottolineare l'isolamento in cui vivono i personaggi e a rafforzare quel senso di circolarità temporale che caratterizza la loro esistenza» (Daria Pomponio).
Copia proveniente dall'Istituto Giapponese di Cultura - Ingresso gratuito
 
 

 

 

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