Home > “Oggi, 20 maggio, presso il cinema Trevi, convegno di studi “Il filosofo e la rappresentazione cinematografica. Vivo fino alla morte: lutto gaiezza immagine a proposito di Paul Ricœur”
“Oggi, 20 maggio, presso il cinema Trevi, convegno di studi “Il filosofo e la rappresentazione cinematografica. Vivo fino alla morte: lutto gaiezza immagine a proposito di Paul Ricœur”
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«Io non debbo trattarmi come il morto di domani, per tutto il tempo che sono in vita. Riprendo qui [...] la speranza, nell'istante della morte, di uno squarciamento dei veli che dissimulano il fondamentale nascosto sotto le rivelazioni storiche.

Proietto, così, non un dopo-la-morte ma un morire che sia un'ultima affermazione della vita. L'esperienza mia di una fine della vita si nutre di quest'auspicio profondo di fare dell'atto del morire un atto di vita. Questo auspicio lo estendo alla mortalità stessa, come un morire che resta interno alla vita. Così la mortalità stessa deve essere pensata sub specie vitae e non sub specie mortis. Ciò spiega perché non ami affatto né utilizzi il vocabolario heideggeriano dell'essere-per-la-morte; direi piuttosto: essere fino alla morte». L'auspicio, che Ricœur formulava ne La critica e la convinzione torna nel suo piccolo scritto postumo Vivo fino alla morte, dove al lutto delle proiezioni immaginarie del post mortem egli connette una gaiezza ancora possibile.
Come Ricœur ci aiuta in questo "apprendistato del morire" tra lutto e gaiezza? Ricœur, come sua abitudine, procede per determinazioni concettuali: 1) la morte degli altri cari, la mia morte; 2) il morire come evento del passare, del finire; 3) la configurazione immaginaria della morte come personaggio agente. Egli si lascia così istruire soprattutto dalle voci di Levi e Semprun, dall'attenzione alle esperienze dei malati terminali, per passare, poi, al lavoro del distacco dall'immaginario della sopravvivenza alla luce di una concezione "altra" della resurrezione, quale quella che viene dalle meditazioni del teologo Léon-Dufour.
In che modo il cinema ha affrontato un argomento simile? In che modo fare della morte un ultimo atto di vita? In che modo la gaiezza resta ancora possibile quando si abbandona tutto? È questo l'interrogativo che vogliamo affidare al nostro colloquio, dove filosofi, sociologi e cinefili potranno discutere dell'argomento.
 
Cinema e filosofia
ore 20.30
L'invenzione di Morel (1974)
Regia: Emidio Greco; soggetto: dal romanzo di Adolfo Bioy Casares; sceneggiatura: Andrea Barbato, E. Greco; fotografia: Silvano Ippoliti; musica: Nicola Piovani; montaggio: Mario Chiari; interpreti: Giulio Brogi, Anna Karina, John Steiner, Ezio Marano, Roberto Herlitzka, Anna Maria Gherardi; origine: Italia; produzione: Alga Cinematografica, Mount Street Film-Coop; durata: 111'
«Finalmente un regista esordiente con buone letture e indenne dai sintomi della mercificazione precoce. Emidio Greco ci ripropone La invenzione de Morel, il più famoso romanzo di Adolfo Bioy Casares, scritto nel '40 e pubblicato da Bompiani: una splendida testimonianza di quella scuola bonarense del labirinto e della fantasticheria che va da Borges a Silvina Ocampo. Dell'opera prima di Greco si può dire che non sembra un film italiano, nel senso che è immersa in un'atmosfera culturale scevra di residui provinciali. Il regista si è rifatto allo stile di Bresson (anche se deve ancora maturarne il rigore) per la difficile impresa di oggettivare il monologo del protagonista. Un naufrago alla Robinson è finito su un'isola dove passeggiano le immagini incorporee degli antichi ospiti di Morel, che molti anni prima aveva scoperto il sistema di registrare la realtà a futura memoria e in una vertiginosa sequenza di ripetizioni. Si potrà discutere la scelta figurativa vicina a L'anno scorso a Marienbad (qualcuno però sostiene che Robbe-Grillet fu influenzato proprio da Morel scrivendo il copione per il film di Resnais). Ma all'interno di una cifra algida e sterilizzata, il risultato è spesso affascinante:la fotografia di Silvano Ippoliti, le architetture di Amedeo Fago, i costumi di Gitt Magrini e le musiche di Nicola Piovani sono di prim'ordine» (Kezich).
 
 
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