
Il 6 maggio uscirà nelle sale italiane “Vakhim”, film documentario diretto dall’ex allieva di Regia del CSC – Scuola Nazionale di Cinema Francesca Pirani. Già presentato alle Notti Veneziane (spazio off delle Giornate degli Autori) durante la 81a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, Vakhim è un racconto emozionante che affronta con autenticità e delicatezza temi universali come il rapporto genitori-figli, la memoria, la perdita e la ricerca delle origini. Adottato in Cambogia a quattro anni, Vakhim arriva in Italia nel 2008. Parla solo khmer e tutto intorno a lui è sconosciuto. Il passato è ormai alle spalle, ma in Italia c’è anche Maklin, la sorella maggiore e dopo qualche anno arriva una lettera: è la madre naturale di Vakhim che chiede del figlio. Francesca e Simone, i genitori adottivi, decidono di andarla a cercare.
Francesca Pirani, poliedrica regista e sceneggiatrice che ha iniziato la sua carriera collaborando con il maestro Marco Bellocchio, con questo film si mette in gioco, apre le porte del suo vissuto e racconta la storia di suo figlio. Con la commistione di materiale di repertorio privato e nuove riprese, la regista supera i confini del documentario tradizionale, si muove tra realismo e poetica della memoria e, grazie all'uso di diversi stili e tecniche, riesce a rappresentare la complessità della storia di Vakhim.
Il pubblico avrà la possibilità di incontrare la regista Francesca Pirani a Milano, il 6 maggio all’Anteo Spazio Cinema alle 21.15, insieme a Gabriella Nobile – fondatrice della Onlus “Mamme per la pelle” – e al Vice Direttore di SKY TG24 Omar Schillaci. Mentre il 15 maggio presentazione a Roma, al cinema Farnese alle 21, alla presenza della regista e Marco Bellocchio. Il film rimarrà al cinema Farnese fino al 21 maggio.
Il Centro Sperimentale di Cinematografia ha intervistato l’autrice.
Presentato al Festival di Venezia per le Giornate degli Autori, Vakhim è un film che, attraverso la storia personale della tua famiglia, tocca un tema importante, quello delle adozioni internazionali. Cosa racconta?
Il film è narrato da me in prima persona e segue la storia di mio figlio adottivo, Vakhim appunto, dall’arrivo in orfanotrofio in Cambogia fino al nostro incontro e, dopo molti anni, alla ricostruzione progressiva della sua memoria infantile e dei suoi legami familiari. La prima parte documenta il primo anno insieme, il passaggio da un paese all’altro, da una lingua all’altra, e i primi segni, per noi, della sua vita familiare precedente, per arrivare al ritrovamento dei suoi fratelli. Nella seconda parte, anni dopo, quando Vakhim era ormai maggiorenne, giungono delle lettere dalla Cambogia che rivelano che la madre naturale è viva e chiede sue notizie. Questo ci ha spinto a tornare in Cambogia per cercarla, e nello stesso tempo, a pensare di realizzare un film su questa storia. È un percorso di ricostruzione della memoria e dell’identità, un percorso di riconciliazione e ricongiunzione. In Cambogia il film è stato accolto con grande calore, il ministro della cultura lo ha riconosciuto come una testimonianza della “diaspora cambogiana”, delle condizioni di queste madri che, per miseria, perdono i propri figli, senza neanche avere chiaro che non li rivedranno, e il regista Rithy Panh ha voluto che fosse donato al paese.
Il film comincia dunque prima dell’adozione e finisce quando Vakhim è maggiorenne. Cosa ha significato questo riguardo alla produzione delle immagini?
L’idea è maturata nel tempo, anche perché ho voluto rispettare i tempi emotivi di mio figlio. Ho cominciato a filmarlo da piccolo, come fanno tutti, senza avere un fine per queste immagini. Lo filmavo semmai sapendo che avrebbe perso in brevissimo tempo la sua lingua madre e i ricordi ad essa legati. Solo nel 2019 ho iniziato a pensare al film, grazie a un’amica sceneggiatrice che mi ha spinto a partecipare al Premio Solinas. Da lì è partito tutto. È stato un processo lungo, fatto di ostacoli produttivi e passaggi emotivi importanti. Mio figlio, inizialmente restio ad affrontare il passato, quando è nata l’idea di farne un film mi ha chiesto con forza di raccontare la sua storia. Quando siamo tornati in Cambogia poi, tutto è avvenuto con naturalezza, fino all’incredibile e inatteso incontro con la madre biologica. La prima parte dunque è costruita con materiale d’archivio girato da me con una piccola telecamera, poi restaurato. Alcune scene più recenti sono state girate con l’iPhone, per necessità e immediatezza, mentre in Cambogia ho lavorato con un direttore della fotografia. La struttura è ibrida: mescola materiali intimi -repertorio familiare appunto- a vere e proprie ricostruzioni visive. Ho voluto creare un passaggio fluido tra realtà, memoria e immaginazione. Ci sono alcuni “attori” -contadini e bambini scelti nei villaggi- che interpretano, e quindi ricostruiscono e rendono visibili, i ricordi d’infanzia di Vakhim. Nella seconda parte incontriamo le persone reali protagoniste di quelle storie. È un continuo scambio tra rappresentazione e realtà, senza separazioni nette. Io vengo dalla finzione, è il cinema che amo di più. Ho sempre lavorato con gli attori, e mi piace costruire le storie attraverso le immagini, più che con le parole. Non nasco da un cinema “neorealista”, ma cerco un’espressione che abbia forza visiva ed emotiva.
Puoi dire qualcosa in più del tuo percorso cinematografico?
Sono partita dal teatro, come attrice, poi ho studiato regia al Centro Sperimentale di Cinematografia. Lì ho trovato la mia strada, tra scrittura e regia. Il mio saggio, Il sorriso in fondo al mare, fu notato da Marco Bellocchio – mi disse “Hai stile!”. Poi Marco mi chiamò come assistente alla regia. Grazie a lui ho esordito con un film che faceva parte di un progetto sul tema dell’immigrazione. Dopo quell’inizio incoraggiante, il mio percorso si è fatto più complesso. Ho lavorato in teatro, girato documentari, sperimentato formati ibridi. Mi piacerebbe tornare alla finzione, ad una storia.
Scritta e diretta da te… Grazie Francesca.
Intervista a cura di Silvia Tarquini
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