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“Martedì 17 gennaio al cinema Trevi giornata di proiezioni e incontri per ricordare Enzo Ungari, un “mangiatore di film”.”
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In memoria di un mangiatore di film: Enzo Ungari
«Il mangiatore di film crede che non si abbia diritto di parlare e scrivere di cinema se non se ne sia profondamente innamorati, di un amore appassionato e dipendente. Per lui solo chi senza il cinema non può vivere, ha il diritto di vivere di cinema».EU
 
«Sono nato nel 1948, sotto il segno del Cancro, che è anche il mio ascendente. Fino a dieci anni ho vissuto in via Venezia [a La Spezia] e i miei giochi da bambino consistevano soprattutto nel fare scherzi e mandare fuori dei gangheri gli operai della ditta Mannocci […]. Poi i miei genitori si sono trasferiti dall'altra parte della città, in via san Cipriano, e per un bambino di quei tempi ciò significava l'altra parte del mondo. Non avrei mai osato prendere un autobus da solo. Per consolarmi della perdita di tutti i miei amici d'infanzia ho cominciato ad andare al cinema, anche perché non ho mai amato la vita che conducevo in quei tetri anni '60 che oggi tutti rimpiangono. […] Fuggivo da tutto ciò andando al cinema tre volte al giorno». Così si raccontava Enzo Ungari, critico, sceneggiatore, organizzatore di festival e manifestazioni cinematografiche. Redattore creativo e iperdinamico di una delle più belle riviste cinematografiche, «Cinema e Film», dove riuscì, grazie a quella strana ossessione chiamata cinefilia, a coniugare il sacro con il profano, come scrisse giustamente Roberto Silvestri, «Joyce, Mao, Debord, Genette, il porno, l'underground, le ricerche psichedeliche e il cinema horror furono armi d'esplorazione e scoperte che fecero esplodere i dogmi e le arrugginite gabbie razionali della spuntata critica di papà, imperante». Ma sbaglia però chi pensa che il "mangiatore" Ungari non fosse un palato fine, è solo che i suoi gusti sono sempre andati contro corrente, spesso anticipando mode e piaceri che sarebbero nati anni dopo. Tra la pagina scritta e il "fare" per il giovane Enzo il confine è molto labile: comincia quasi per scherzo a scrivere sceneggiature e parallelamente diventa un infaticabile organizzatore e creatore di eventi cinematografici: dallo storico cineclub Filmstudio 70 all'invenzione di Massenzio. Nel 1979 lo chiama Carlo Lizzani, allora direttore della "rinata" Mostra del Cinema di Venezia, come suo braccio destro. Ed Ungari crea lo spazio Mezzogiorno-Mezzanotte, una delle più belle invenzioni nella lunga storia della Mostra del Cinema di Venezia. Per l'amico Adriano Aprà, Enzo riuscì a coniugare, come critico, passione e lucidità: «Trovo che ci sia un equilibrio notevole tra queste due tensioni, un modo raro di essere insieme soggettivo e oggettivo, di suscitare un desiderio, di far pregustare un piacere e insieme di essere chiaro e preciso fino alla didascalicità». Per Giuseppe Bertolucci Ungari era «quel tipo di La Spezia che non ricordava nulla della sua vita», ma contemporaneamente era anche «una vera e propria miniera di immagini, di battute, di voci, di volti, di cast e di credits. Ma tutto quello che conservava gelosamente custodito nello straordinario archivio della sua memoria non proveniva dalla sua vita privata, ma da quella specie di altro mondo, di al di là della rappresentazione e della comunicazione. Mai - nel corso delle nostre troppo brevi, troppo frammentarie, ma quanto vitali frequentazioni! - mai ricordo Enzo che cita un momento, un fatto, un volto, un caso della sua vita privata». Forse perché come ricordava Bernardo Bertolucci, Ungari aveva «un'intelligenza acrobatica, lanciata al di là delle convenzioni anche nel modo di pensare, quasi al di là della morale. […] una voracità intellettuale senza fondo e la capacità di prefigurare momenti di "interattività" molto prima che questa parola esistesse». E se la sua prematura scomparsa nel 1985 è una vera e propria ingiustizia, di sicuro la sua eredità dura ancora oggi, nei tanti scritti di cinema di giovani critici e nei tanti eventi e molteplici programmazioni culturali, inclusa ovviamente quella del Cinema Trevi.
L'omaggio prosegue il giorno successivo con la proiezione di Maschio femmina fiore frutto di Ruggero Miti, la più bizzarra collaborazione cinematografica di Enzo Ungari.
Si ringrazia Officina Film Club e Fuori Orario.
 
ore 17.00
Ammazzare il tempo (1979)
Regia: Mimmo Rafele; soggetto: dal romanzo omonimo di Lidia Ravera; sceneggiatura: L. Ravera, M. Rafele, Enzo Ungari; fotografia: Danilo Desideri; scenografia: Guido De Laurentis; costumi: Roberto De Laurentiis; musica: Enrico Rava; montaggio: Gabriella Cristiani; interpreti: Stefania Casini, Paola Morra, Flavio Bucci, Fabio Garriba, Angelo Infanti; origine: Italia; produzione: Delia Films; durata: 90'
Sara è una giornalista trentenne che vive sola in una città non sua. Ha come amante uno psicanalista che però un giorno non la lascia entrare, perché, come Sara scoprirà poi, è in compagnia di un'altra. È l'inizio di un triangolo tra un uomo apparentemente tranquillo, una ragazza che si droga e la giornalista, incuriosita dal comportamento libero della sconosciuta e dal rapporto che intrattiene con Igor, lo psicanalista. «"Siamo veramente una generazione disperata: abbiamo 25 anni, 27, 30 e siamo disposti a fingerne 50 pur di non avere la nostra età. O imitiamo i vecchi o imitiamo i ragazzini. Ma è proprio tanto una colpa avere 30 anni? Voglio dire: è impossibile portarseli addosso con quello che significano?". Così dice Sara, protagonista del romanzo di Lidia Ravera da cui il film è tratto. È da qui, […] che parte il film, cercando di cogliere il delicato e doloroso passaggio dall'adolescenza all'età adulta, quasi una linea d'ombra che, per la generazione che ha oggi trent'anni, corrisponde anche al crollo delle "speranze rivoluzionarie". Questo doppio invecchiamento, biologico e storico, viene messo a fuoco oltre che su Sara, la protagonista, anche su altri personaggi, anch'essi, in diversa misura, testimoni e vittime di questa lacerante condizione. […] Contrapposti a questi personaggi, quasi come uno specchio che deforma talmente da rendere indistinguibile l'immagine che riflette, stanno gli adolescenti di oggi, polo dialettico del romanzo e del film» (Rafele).
 
ore 19.00
Io con te non ci sto più (1983)
Regia: Gianni Amico; soggetto: G. Amico, Enzo Ungari; sceneggiatura: G. Amico, Francesco Tullio Altan, E. Ungari; fotografia: Antonio Nardi; scenografia: Giorgio Postiglione; costumi: Katerina Koschak; musica: Fernando Falcao; montaggio: Roberto Perpignani; interpreti: Victor Cavallo, Monica Guerritore, Coralla Majuri, Claudio Remondi, Carlo Monni, Silvio Vannucci; origine: Italia; produzione: Fiction Cinematografica; durata: 95'
Proprio quando hanno deciso di separarsi, Marco e Clara trovano finalmente casa. I due decidono di coabitare senza toccarsi. Ma tutto sembra inutile perché continuano a litigare. Una ragazza che abita nell'appartamento vicino complica ulteriormente il tutto. «L'idea viene da una storia vera, la storia di tre amici comuni, miei e di Enzo Ungari, che ha scritto con me il soggetto. Dopo qualche anno abbiamo trovato un produttore che, non essendo riuscito a intervenire in Le affinità elettive, mi ha chiesto di fare con lui un film a basso costo. Così con Enzo abbiamo scritto il trattamento, poi il produttore è morto in un incidente e il progetto si è fermato. […] Quando Bertolucci ha firmato un accordo con la Ladd Company per fare un film suo più tre film a basso costo, si è ricordato del mio soggetto. Nella sceneggiatura è intervenuto anche Altan, molte cose sono state riscritte perché erano un po' datate, per esempio il femminismo era molto più accentuato […]. [È] un film sullo spazio come maschera dei problemi sentimentali. […] A volte il film tende a scivolare nella pochade. Comunque più che un remake in chiave rosa de Il tetto, lo considero una versione involgarita de Le affinità elettive. Ha anche un motivo comune con Le cinque stagioni, la costruzione dell'utopia: là era il presepe, qui lo strumento musicale. […] È anche un film sul presente, il presente come crisi degli alloggi, ma anche come crisi dei sentimenti e della cultura. Il vero soggetto è la costrizione. I tre personaggi sono continuamente frustrati, non fanno mai quello che vogliono fare: è un film sul malessere di questi anni» (Amico).
 
ore 20.45
Incontro moderato da Enrico Magrelli, con Lenina Ungari, Adriano Aprà, Franco Ferrini, Fiorella Giovanelli Amico, Fiorella Infascelli, Carlo Lizzani, Renato Nicolini, Mimmo Rafele, Lidia Ravera, Gianni Romoli, Roberto Silvestri, Piero Spila
Nel corso dell'incontro saranno proiettati dichiarazioni e interventi di e su Enzo Ungari
 
a seguire
Oggetti smarriti (1980)
Regia: Giuseppe Bertolucci; soggetto e sceneggiatura: G. Bertolucci, Mimmo Rafele, Lidia Ravera, Enzo Ungari; fotografia: Renato Tafuri; scenografia: Paolo Biagetti; costumi: Lina Nerli; musica: Enrico Rava; montaggio: Gabriella Cristiani; interpreti: Mariangela Melato, Bruno Ganz, Francesca Rinaldi, Laura Morante, Maria Luisa Santella, Renato Salvatori; origine: Italia; produzione: Fiction Cinematografica; durata: 92'
Stazione Centrale di Milano. Marta, una signora borghese in crisi, si perde per un giorno e una notte, tra i corridoi dell'edificio. Non è sola però. È in compagnia di un suo vecchio amico. «Il film […] rientrava in un pacchetto, formato da La luna e La tragedia di un uomo ridicolo di Bernardo, Io con te non ci sto più di Gianni Amico e Sconcerto rock di Luciano Manuzzi, reso possibile dal grande potere contrattuale acquistato da Bernardo dopo il successo internazionale di Ultimo tango a Parigi e - in parte - di Novecento. Avevo letto da poco Un cielo più piccolo, un romanzo di uno scrittore inglese […]: la storia di un modesto impiegato che un giorno, persosi nella stazione di Paddington, decide di rimanervi, rinunciando al lavoro e alla famiglia. Inizialmente pensavo ad un semplice adattamento. In seguito, lavorando sul soggetto assieme a Enzo Ungari, Mimmo Rafele e Lidia Ravera, vien fuori l'idea di questa donna che si perde alla stazione di Milano per un giorno ed una notte. Faccio leggere il soggetto a Mariangela Melato che ne è entusiasta. Scriviamo la sceneggiatura e la Fiction - in pratica mio fratello Bernardo - lega produttivamente il film a La luna. […] Il percorso che compie il personaggio interpretato da Mariangela Melato allora mi piaceva chiamarlo presa di "incoscienza" e non di "coscienza": solo toccando e scoprendo le parti più nascoste di se stessi si poteva forse arrivare all'idea di cambiare la propria persona, superando anche una serie di nevrosi tipiche della classe sociale borghese a cui la donna apparteneva» (Giuseppe Bertolucci).
Ingresso gratuito

 

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