“Larchivio e la raccolta libraria di Antonio Bertini, studioso, professore, regista, sceneggiatore sono accessibili presso la Biblioteca del Centro Sperimentale di Cinematografia”
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Il fondo si compone di circa duecento tra soggetti, trattamenti, sceneggiature, libri, riviste che ripercorrono l'attività di Antonio Bertini come professore di cinema, regista, sceneggiatore e scrittore. Diciannove cartelle contengono scritti, poesie, corrispondenza, contratti, dispense attività didattica, rassegna stampa. Le fotografie sono consultabili presso l'archivio fotografico della Cineteca Nazionale.
Il figlio Carlo, giornalista de «La Stampa», ne mette in luce l'aspetto privato e le passioni: «Avevo già cominciato a scrivere di lui, delle sue abitudini e del suo lato più privato, quando lo schermo del monitor d'improvviso ha cancellato ogni parola. Come se dall'alto lui avesse voluto tirarmi uno scherzo beffardo. Sono certo che mio padre, Antonio Bertini, da questo incipit, ne avrebbe tratto volentieri lo spunto per un soggetto, o almeno avrebbe sfornato ridendo una qualche citazione cinematografica o letteraria. Grande infatti era il suo sapere, così come grande era la sua ritrosia nel farne sfoggio, lui che era in tutto e per tutto un intellettuale senza spocchia. È come se avessi sentito subito la sua voce, "non incensarmi troppo che non mi piace lo sai". Meno di ogni cosa amava infatti la retorica, rifuggiva da qualunque autocompiacimento. Al punto che non mi parlava mai delle sue opere, solo da adulto e addirittura solo dopo la sua morte ho conosciuto cose che aveva fatto, sceneggiature e altri materiali, di cui ero all'oscuro. Soggetti e trattamenti lasciati nel cassetto.
Interi faldoni di poesie, un amore coltivato fin dall'adolescenza insieme al suo circolo di amici siciliani che negli anni cinquanta facevano il verso agli esistenziali francesi. "Vestivamo di nero con i maglioni a collo alto e i baschi", raccontavano sorridendo i miei genitori. Mia madre Giulia, era un pianeta centrale nel suo universo e faceva parte della sua poetica con i suoi silenzi e i suoi sguardi eloquenti, donna di grande cultura, che giudicava ogni virgola in eccesso come superflua e di cattivo gusto.
Potrei dire degli anni giovanili in cui Antonio Bertini apre il primo cineclub di Palermo e uno dei primi in Italia. Degli anni in cui viene a Roma e tra i tanti lavori fa il correttore di bozze all'Unità. "Mi davano sempre da leggere gli editoriali di Togliatti perché si fidavano della mia precisione", mi narrava compiaciuto mostrandomi la tessera del pci firmata dal "Migliore". O potrei parlare degli anni siciliani, di cui ho voluto conoscere episodi della sua fanciullezza, incorniciati dallo stridore delle cicale nelle campagne o dallo sciabordio delle onde di un mare sonnacchioso. E potrei dire degli studi umanistici all'università orientale di Napoli, la poesia, il cinema, la letteratura e il suo amore sconfinato per Hemingway: la sua scrittura è potente perché asciugata all'osso, senza fronzoli, diceva mio padre. Ma da ragazzo fu travolto dall'amore per il mare. La frequentazione dell'istituto nautico gli aveva lasciato in dote la conoscenza delle stelle e una grande amicizia, quella di Ivan Laganà, poi capitano di lungo corso come anche lui avrebbe voluto essere. Facendosi poi sospingere altrove da un'altra forte corrente, quella del cinema e dell'impegno politico, che lo portò fino a Roma.
Erano gli anni del boom economico e lui faceva il critico cinematografico, scriveva soggetti e sceneggiature, dirigeva documentari di denuncia su temi sociali. E andava per mare. Tra le sue carte ho ritrovato un diario di bordo del periplo della penisola da Anzio a Chioggia, compiuto in un autunno piovoso su una barca a vela d'epoca tutta in legno, con due suoi amici che avevano fatto della navigazione turistica il loro mestiere. Un diario emozionante per me che ho letto tutti quelli dei navigatori solitari da un secolo a questa parte, lasciati in dote da mio padre che li aveva divorati a suo tempo. Ma a parte questi brevi cenni, il suo lato più privato lo terrò per me; quello che lascio a chi leggerà queste righe è la forte impressione che facevano su di me ragazzo tutte le sue nottate passate a leggere, sempre con un testo in mano, a testimonianza che l'amore per il sapere non è mai fatica ma un piacere che non si riesce a interrompere facilmente. E così fino all'ultimo giorno è stato per lui, che riusciva a leggere senza lenti superati gli ottant'anni e ancora si indignava per le "castronerie" che sentiva dire nei vari campi della politica o della cultura. Ma solo con suo figlio che lo ascoltava e senza strombazzarlo con aria da "trombone", semmai chiudendo il discorso posandomi un biglietto in mano vergato con una calligrafia sempre più tremolante. "Ecco questa è la lista di libri che vorrei che mi comprassi, ma senza fretta, non voglio disturbarti, ordinali quando ti capita di passare in libreria. Grazie figlio mio". Grazie a te papà».
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