Ricominciare da capo. In capo al mondo. Prima de La chiave, del sesso, delle attrici-feticcio, degli scandali, delle facili identificazioni. Tornare indietro nel tempo, ancora prima e dopo la rivoluzione, al grido chi lavora è perduto. Quando il cinema italiano incontra la contestazione e cadono le barriere. Temporali: «Ricordo l'ossessione di Rossellini: "Perché siamo obbligati ad avere un'ispirazione che dura un'ora e tre quarti? Se mi dura un'ora e venti?"». Quando si facevano i film per geniale ispirazione, film "scritti, diretti e montati", l'artista completo che concepisce e realizza un'opera d'arte utilizzando la macchina da presa come il pennello, la pellicola come la tela, i personaggi come i colori, la realtà come lo sfondo. Opere uniche, non imitabili, dei dischi volanti che svettano impazziti nel cielo, sempre lindo, del cinema italiano, schegge impazzite di un'utopia irrealizzabile, ma proprio per questo affascinante. Titoli come slogan: col cuore in gola, nerosubianco, l'urlo, dropout, secchi, incisivi, dritti al cuore, a spezzare la quiete. Echi ovunque: realismo e surrealismo, fumetto e pop art, Ivens e Langlois, Vigo e Godard, nouvelle vague e swinging London. Barriere formali: «Voi siete dei brutali contenutisti! Ma se non c'è la forma che cos'è il contenuto?». Di scrittura: «I suoni onomatopeici: "Ough!", "Slam!", esistevano già nella sceneggiatura. Il produttore diceva: "Ma come scrivi?". "E beh scrivo così"». Tutto può essere abbattuto, nel nome del montaggio, atto superbamente creativo, montaggio delle attrazioni: «Attraction. Diciamo addio a sotterfugi / ipocrisie e qui pro quo […] Nero su bianco bianco su nero / nero su bianco su nero» e montaggio delle distruzioni: «Io adoro le bombe, adoro l'angoscia adoro la distruzioni. Io adoro i distruttori di idoli. Io sono un idolatra. Io mi adoro. Io sono anche distruttore di idoli. Io sono un idolatra!». Immagini subliminali, marchi pubblicitari, istantanee nel cervello dello spettatore, colpito nell'inconscio, prima che nel cuore. Già prematuramente postmoderno, incredibilmente moderno, nel provincialismo del cinema italiano, forte dell'esperienza della nouvelle vague, assorbitain loco, a Parigi, alla Cinémathèque Française, «una rottura radicale con un modo classico di raccontare, di esprimersi, di fare cinema». Una lezione non semplicemente assimilata e riprodotta, ma filtrata attraverso una cultura personale e un sottile gioco di reminescenze: «La mia formazione è sicuramente più di tipo figurativo che narrativo o letterario. Quindi il bombardamento di immagini cui sono stato sottoposto da giovane, sia della pittura di mio nonno che dei quadri che lui raccoglieva (era un collezionista, possedeva una gran collezione di dipinti veneti, liguri, ecc.), sia in fondo della stessa città di Venezia - un vero trionfo figurativo di immagini, di forme - mi hanno condizionato, hanno segnato fortemente il mio gusto estetico».
“Il 2 febbraio alle 21.00 al cinema Trevi, incontro con Tinto Brass”
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La Cineteca Nazionale rende omaggio a un autentico maestro del cinema (non solo italiano) che ha rinnovato e sovvertito il linguaggio cinematografico: Tinto Brass. In due atti: prima e dopo La chiave…
Si ringrazia per la collaborazione Caterina Varzi. Le citazioni nell'introduzione e nelle schede sono tratte dall'imprescindibile libro nerosubrass, a cura di Lorenzo Codelli, Dino Audino Editore, 1996.
2 febbraio ore 21.00
Incontro con Tinto Brass
a seguire
Chi lavora è perduto (1963)
Regia: Tinto Brass; soggetto e sceneggiatura: T. Brass, con la collaborazione di Kim Arcalli; fotografia: Bruno Barcarol; scenografia: Raul Schultz; costumi: Danilo Donati; musica: Piero Piccioni; montaggio: Tinto Brass; interpreti: Sady Rebbot, Pascale Audret, Nando Angelini, Andreina Carli, Gino Cavalieri, Tino Buazzelli; origine: Italia/Francia; produzione: Zebra Film, Franco London Film; durata: 80'
«Avevo steso da solo un primo trattamento che poi ho sottoposto all'attenzione di Kim Arcalli. In quel periodo stavamo in Yugoslavia per Ça Ira. Il primo copione traeva spunto da Joyce. Mi divertivo molto a creare piccoli giochetti di parole. Molti sono entrati a far parte del lungo monologo del film. Insieme a Kim, dopo il trattamento, abbiamo proceduto nella stesura della sceneggiatura, sulla base della prima scrittura realizzata da me soltanto. Molte cose sono rimaste intatte. […] Il film disorientava, era diverso rispetto ai film che si producevano, che si giravano all'epoca. Questo modo diverso di riprendere la realtà veniva sicuramente dal fatto di aver svolto l'apprendistato in Francia. La struttura del film, il modo di raccontare, l'uso della macchina, il linguaggio erano diversi e sconcertavano. E in più c'era anche una vena anarchica e trasgressiva, di contestazione. […] Mi discosto dalle lotte operaie. Era una mia personale angoscia. Tutti per il lavoro… vogliamo il lavoro. Nessuno si rendeva conto quanto fosse brutto e noioso. Il lavoro è una condanna. Questa non era certo una posizione ortodossa» (Brass).
Ingresso gratuito
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