La famiglia dal Novecento ai giorni nostri tra cinema e psicoanalisi
22 Settembre 2012 - 22 Settembre 2012
Cinema e psicoanalisi hanno diversi punti in comune: nati e sviluppatisi nello stesso periodo storico, hanno continuato ad influenzare, con la propria ricerca, la cultura e l’arte da versanti diversi. Anche se il cinema non ha un presupposto terapeutico, alcuni aspetti della sua indagine hanno, tra l’altro, la capacità di stimolare e mettere in luce talune dinamiche psichiche, nascoste alla coscienza dello spettatore, in questo avvicinandosi alla ricerca e alla pratica psicoanalitica. I film hanno, d’altronde, modalità espressive affini a quelle dei sogni e dell’immaginario, utilizzando quel registro iconico che la Psicoanalisi indaga quale livello fondamentale per la simbolizzazione psichica e la pensabilità. Partendo da un incontro fecondo d’interessi la Società Psicoanalitica Italiana e il Centro Sperimentale di Cinematografia hanno da alcuni anni avviato delle iniziative comuni, tra cui il ciclo “Cinema/Psicoanalisi”, articolato con delle proiezioni mensili al cinema Trevi. Dopo che negli scorsi anni si è messo l’accento sulla figura del padre e alcuni aspetti del femminile, nel 2012 sarà il tema della famiglia al centro delle proiezioni e dei dibattiti. Le vicissitudini e le dinamiche familiari hanno da sempre interessato e investito le riflessioni non solo psicoanalitiche, ma anche sociologiche, storiche e antropologiche. La ricerca psicoanalitica, nel suo studio a fini terapeutici dei livelli profondi della psiche, ha focalizzato nell’evoluzione dei rapporti familiari la matrice di molti disturbi mentali (basti ricordare, a tale proposito, la centralità del triangolo edipico), da qui l’interesse e il progetto di un ciclo di proiezioni che copra un periodo che va dalla fase tra le due guerre fino ai nostri giorni, capace di mettere l’accento sull’evoluzione e i cambiamenti della e nella famiglia, aldilà di talune dinamiche che ne costituiscono il nucleo fondante. Verranno proiettati film dei più importanti registi italiani che hanno contribuito ad approfondire nel tempo il tema della famiglia. Parteciperanno agli incontri, introdotti e coordinati da Fabio Castriota, Presidente del Centro Psicoanalitico di Roma, diversi registi, critici e psicoanalisti della Società Psicoanalitica Italiana.
ore 17.00
La messa è finita (1985)
Regia: Nanni Moretti; soggetto e sceneggiatura: N. Moretti, Sandro Petraglia; fotografia: Franco Di Giacomo; scenografia: Amedeo Fago, Giorgio Bertolini; musica: Nicola Piovani; montaggio: Mirco Garrone; fonico: Franco Borni; interpreti: N. Moretti, Margarita Lozano, Ferruccio De Ceresa, Enrica Maria Modugno, Marco Messeri, Dario Cantarelli; origine: Italia; produzione: Faso Film; durata: 96′
«Dopo essere stato studente, regista, professore, era arrivato il momento di accostarmi a questo personaggio, quello del sacerdote, che per sua istituzione deve occuparsi dei problemi degli altri. La parrocchia assomiglia un po’ al mondo dei miei film precedenti; ma mentre prima potevo ripiegarmi su me stesso, qui ho il dovere – ma è anche un’esigenza personale – di immischiarmi nella vita degli altri. Ero interessato alla difficoltà che troviamo nel fare qualcosa per gli altri. Forse questo personaggio in confronto a quello di Bianca, ugualmente rigido, ugualmente costruito a partire da basi di moralità, di perfezione, di assoluto, inizia ad accettare un po’ di più gli altri, ad accettare la realtà» (Moretti). «La messa è finita è gustoso e interessante, si ride anche. Lo spettacolo è fine, diverso, qualche incertezza iniziale e poi prende, piace. Sotto l’espressività giovane, viva, spontanea si avverte un mestiere paziente e maturo. Le situazioni sfrecciano sullo schermo incisive, spesso con sbocchi a sorpresa; c’è ironia, dolcezza, stupore, delusione; e poi scatti improvvisi di irritazione, un velo di tristezza. Il primo piano è monopolio di don Giulio, umanissimo, un po’ nevrotico, lunare. L’attore Moretti è fin troppo bravo, simpatico e mostra fin troppo di saperlo. Eppure quello sceneggiato da Moretti e da Sandro Petraglia, non è un film comico: ti alimenta dentro un senso sottile e vago di disagio, di accoramento. Si risolve in una resa alla solitudine» (Luigi Bini).
Copia stampata con il contributo del Festival Internazionale del Film di Locarno
ore 18.45
Io e mia sorella (1987)
Regia: Carlo Verdone; soggetto e sceneggiatura: Benvenuti e De Bernardi, C. Verdone; fotografia: Danilo Desideri; scenografia: Emilio Baldelli; costumi: Luca Sabatelli; musica: Fabio Liberatori; montaggio: Antonio Siciliano; interpreti: Carlo Verdone, Ornella Muti, Elena Sofia Ricci, Mariangela Giordano, Galeazzo Benti, Tomas Arana; origine: Italia; produzione: C.G. Silver Film, Rai; durata: 108′
«Carlo Piergentili – un oboista che, con la moglie Serena, violoncellista, fa parte dell’orchestra di Spoleto – ha la madre in fin di vita. Carlo deve avvertire sua sorella Silvia – tanto irrequieta e vagabonda, quanto lui è mite e amante della vita tranquilla – e chiederle di tornare a casa. Il telegramma la raggiunge in Grecia, ma lei arriva soltanto poco prima della tumulazione. Da quel momento sullo sfortunato e generoso fratello piombano un mare di guai, poiché Silvia si installa in casa sua» (www.cinematografo.it). «Imbastito con una mano leggera ormai inconsueta nel cinema comico italiano, Io e mia sorella riesce a scherzare su temi profondi (inclusa la morte della madre, che per Verdone ha un doloroso riferimento autobiografico) in una chiave ilare e malinconica insieme. Pur non arrivando in primo piano, le figure di contorno sono accennate con estro divertito […]. E dall’insieme emerge un sapore di verità, che si traduce in una paradossale e burlesca apologia dei legami di sangue» (Kezich).
ore 20.45 Relazione della psicanalista Anna Nicolò e incontro moderato da Fabio Castriota. Interviene Flavio De Bernardinis
a seguire
Speriamo che sia femmina (1986)
Regia: Mario Monicelli; soggetto: Tullio Pinelli; sceneggiatura: Leo Benvenuti, Piero De Bernardi, Suso Cecchi d’Amico, Tullio Pinelli, M. Monicelli; fotografia: Camillo Bazzoni; scenografia: Enrico Fiorentini; musica: Nicola Piovani; montaggio: Ruggero Mastroianni; costumi: Ezio Altieri; interpreti: Liv Ullmann, Catherine Deneuve, Giuliana De Sio, Stefania Sandrelli, Athina Cenci, Lucrezia Lante della Rovere; origine: Italia/Francia; produzione: Clemi Cinematografica, Les Producteurs Associés; durata: 119′
«Declino di una famiglia del latifondo toscano (Grosseto) che gestisce un’azienda agricola e in cui contano (e lavorano) soprattutto le donne. Grande film borghese che arricchisce il povero panorama del cinema italiano degli anni ’80 per il sapiente impasto di toni drammatici, umoristici e grotteschi, la splendida galleria di ritratti femminili, la continua oscillazione tra leggerezza e gravità, il modo con cui – senza forzature ideologiche – sviluppa il discorso sull’assenza, la debolezza, l’egoismo dei maschi» (Morandini). «Speriamo che sia femmina è un film molto importante per diversi motivi, dei quali mi limiterò a citare solo i due che mi paiono decisivi: l’ampiezza di riferimenti del tema portante, da una parte; la capacità di articolarlo in una miriade di storie microscopiche ben intrecciate fra loro, dall’altra. Il tema è netto, inequivocabile, preciso, anche se non enunciato in forme dirette o sfacciate: la fine di una società e di un mondo basati su rapporti che vedono come asse portante il maschio e la centralità della sua cultura (cultura della proprietà, cultura del dominio, cultura degli affetti sottomessi alla idealizzazione narcisistica dell’uomo ovunque questa si manifesti nei rapporti familiari, nell’amore, nella cura degli affari, nel desiderio sessuale, nell’edonismo del fallimento, nell’occupazione di una posizione eminente, e per ciò esposta, nella società e nei valori). Raramente un tema così ampio e complesso è stato trattato con tocco leggero e con discrezione elegante, nei toni sfumati di una luce incerta che lascia come nell’ombra il disegno generale dell’insieme (diciamo pure il “teorema” che regge il film, la precisione con cui ogni elemento della struttura e del racconto sviluppa una sorta di parabola sui rapporti umani possibili nei nostri giorni), e porta alla luce angoli, curve, dettagli, “lasciti” e tracce di una “cultura del femminile” ricca di sollecitazioni e suggerimenti che formicolano più di dubbi costruttivi che di certezze demolitorie. Il tema del declino di una cultura (e di una società) di rapporti umani e di rapporti materiali è sfiorato con la tenerezza della nostalgia, è raffigurato come smembramento silenzioso di un gruppo sociale (la “grande famiglia”) e come ricomposizione dei superstiti (le donne), senza che si senta il pregiudizio ideologico di una scelta di campo sovrimposta al racconto» (Grande).
Ingresso gratuito