La Cineteca Nazionale presenta, a partire da questo mese, un ciclo di classici del cinema italiano per un salutare ritorno ai capisaldi della programmazione, nella speranza di creare un proficuo dialogo con gli spettatori. I film scelti in questo primo appuntamento trovano la ragion d’essere in un gioco cinefilo di potenziali affinità elettive con il cinema dei fratelli Taviani, sotto il segno di una vocazione sociale che è stata variamente intesa dai nostri registi e di un ancestrale legame con la terra, attraverso il quale si ridefiniscono ogni giorno i confini dell’identità individuale e collettiva. La guerra e la riflessione postuma su di essa, le divisioni e le barriere sociali, il lavoro, lo spostamento da un luogo all’altro sono alcune delle suggestioni ispirate dai film qui proposti in un disordinato, ma affascinante, viaggio tra capolavori più o meno riconosciuti.
venerdì 21
ore 17.00
Achtung! Banditi!(1951)
Regia: Carlo Lizzani; soggetto e sceneggiatura: C. Lizzani, Rodolfo Sonego, Giuseppe Dagnino, Ugo Pirro, Massimo Mida, Enrico Ribulsi, Mario Socrate, Giuliani G. De Negri; fotografia: Gianni Di Venanzo; scenografia: Carlo Egidi; costumi: Edith Bieber; musica: Mario Zafred; montaggio: Enzo Alfonsi; interpreti: Gina Lollobrigida, Andrea Checchi, Lamberto Maggiorani, Vittorio Duse, Giuseppe Taffarel, Bruno Berellini; origine: Italia; produzione: Cooperativa Spettatori Produttori Cinematografici; durata: 104′
La guerra partigiana a Genova e nell’Appennino ligure dall’organizzazione clandestina in città e nelle fabbriche fino alla battaglia aperta sui monti e al passaggio dei repubblichini tra le file dei partigiani. Siamo nell’ultimo periodo della guerra, una pericolosa missione viene affidata a un gruppo di partigiani che opera nel retroterra genovese: prelevare armi da una fabbrica di Genova. «Diciamo subito che al Lizzani vanno tributate parecchie lodi, con altrettante riserve. È evidente il disinteressato fervore del giovane regista, che in questa difficile fatica ha prodigato tutto se stesso. Il suo film, istante per istante, l’ha visto, sentito. E questi ultimi dintorni di Genova, questi ritmi di poggi e di viadotti, di ponti e di binari, d’interni ferrigni di fabbrica e di accorata periferia, costituiscono una serie di quadri che non sarà facile dimenticare. Ma se, istante per istante, inquadratura per inquadratura, il film sarebbe davvero assai pregevole, gli nuoce una frequente mancanza di semplicità e di chiarezza, vale a dire di evidenza narrativa, di drammatico rilievo. Troppo vasta, e complessa, e ambiziosa, la tela del film, perché un esordiente riuscisse a dominarla, rivelarla, scandirla» (Gromo).
ore 19.00
La ciociara (1960)
di Vittorio De Sica; soggetto: dal romanzo omonimo di Alberto Moravia; sceneggiatura: Cesare Zavattini; fotografia: Gabor Pogany; scenografia: Gastone Medin; costumi: Elio Costanzi; musica: Armando Trovajoli; montaggio: Adriana Novelli; interpreti: Sophia Loren, Eleonora Brown, Jean-Paul Belmondo, Raf Vallone, Renato Salvatori, Carlo Ninchi; origine: Italia/Francia; produzione: Compagnia Cinematografica Champion, Les Films Marceau Cocinor, S.G.C.; durata: 97′
«Confesso che non ho nessuna propensione per questo genere di verismo in ritardo, anche se porta una firma letterariamente valida come quella di Moravia, questa storia della mamma popolana che, avendo grazie ai quattrini fatti con la drogheria e la borsanera passato il peggio della guerra nell’eremitaggio del paesello natale, proprio quando ormai sicura è in strada per tornare a Roma liberata, viene sorpresa da una squadra di marocchini in una chiesetta diroccata, e violentata insieme alla figlia adolescente. Ridotto all’essenziale nello scorcio violento imposto dal tempo dello schermo, questo non sarebbe se non un drammone di guerra in più, in cui il titillio della lagrima si sposa al pimento del sesso, se non ci fosse quella che direi la luce di De Sica, quell’effusa simpatia, e vitalità sorridente, e sofferta amarezza che è il senso, anche qui, di certe sorprendenti pagine […]. Mai credo, da quando esiste cinema, un episodio più osceno e più atroce fu raccontato con più lapidario ribrezzo, con più cristiano pudore. Soprattutto dopo. Guardate com’è osservato il passo della bambina quando esce fuori sulla strada in controluce, stanco, vacillante, un po’ trascinato, proprio il passo dell’agnellino piagato. Non mi ricordo un’altra immagine che condensi, senza dir nulla, un’accusa più tremenda contro tutto il male del mondo» (Sacchi).
ore 21.00
Le 4 giornate di Napoli (1962)
Regia: Nanni Loy; soggetto: Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, N. Loy; sceneggiatura: Carlo Bernari, P. Festa Campanile, M. Franciosa, N. Loy; fotografia: Marcello Gatti; scenografia: Gianni Polidori; musica: Carlo Rustichelli; montaggio: Ruggero Mastroianni; interpreti: Lea Massari, Aldo Giuffré, Gian Maria Volonté, Georges Wilson, Regina Bianchi, Domenico Formato; origine: Italia; produzione: Titanus, Metro; durata: 120′
«È la cronaca obiettiva, appassionata e commovente di quelle quattro gloriose giornate del settembre ’43 in cui il popolo napoletano, da solo, più con la forza della disperazione che non con le armi, riuscì a costringere i tedeschi a lasciare la città prima ancora che gli Alleati la liberassero. Le quattro giornate di Napoli è, perciò, un film corale, dove ogni singolo episodio – ricostruito sempre sulla base di documentazioni rigorosamente autentiche – tende a fondersi agli altri per raggiungere, nella varietà delle situazioni e nella molteplicità dei caratteri, un clima unitario, dettato e ispirato da quell’impeto collettivo che condusse il generoso popolo di Napoli, pur stremato dalle privazioni e dai bombardamenti, a sollevarsi ed a vincere. L’azione è dosata con molta abilità perché seguendo passo passo la cronistoria di quei giorni, prende prima le mosse lentamente, nel clima euforico dell’armistizio, per cominciare poi ad affrettare le cadenze, in un affannoso crescendo drammatico, via via che i tedeschi occupano militarmente la città» (Rondi).
domenica 23
ore 17.00
La lunga notte del ’43 (1960)
Regia: Florestano Vancini; soggetto: dal racconto Una notte del ’43 di Giorgio Bassani; sceneggiatura: F. Vancini, Ennio De Concini, Pier Paolo Pasolini; fotografia: Carlo Di Palma; scenografia: Carlo Egidi; costumi: Pier Luigi Pizzi; musica: Carlo Rustichelli; montaggio: Nino Baragli; interpreti: Belinda Lee, Gabriele Ferzetti, Enrico Maria Salerno, Andrea Checchi, Nerio Bernardi, Gino Cervi; origine: Italia; produzione: Ajace Produzioni Cinematografiche, Euro International Film; durata: 105′
Nel novembre del ’43 un fascista fa ammazzare il console di Ferrara, facendo ricadere la responsabilità del delitto sugli antifascisti. Riesce così a riappropriarsi della carica di dirigente provinciale del partito e far fucilare alcuni noti antifascisti. Quindici anni dopo i fatti riemergono dall’oblio… Pestelli salutò con entusiasmo l’esordio del regista: «Esordienti così preparati non possono che far del bene al nostro cinema». «Rispetto all’opera letteraria sono stati aggiunti dei personaggi, inesistenti nel racconto; inoltre il finale è completamente diverso. Non si tratta di una ricostruzione storica rigorosa, ciò nonostante il massacro di cui si parla accadde realmente. Io stesso vidi quei corpi: avevo diciassette anni, stavo andando a scuola in bicicletta, quando sentii dire che in centro c’erano dei morti. Questo è quello che è vero storicamente, tuttavia Bassani ne ha fatto una rielaborazione abbastanza libera; il farmacista protagonista della vicenda, ad esempio, nella realtà non esiste» (Vancini).
ore 19.00
I pugni in tasca (1965)
Regia: Marco Bellocchio; soggetto e sceneggiatura: M. Bellocchio; fotografia: Alberto Marrama; scenografia: Gisella Longo; costumi: Rosa Sala; musica: Ennio Morricone; montaggio: Aurelio Mangiarotti [Silvano Agosti]; interpreti: Lou Castel, Paola Pitagora, Marino Masè, Pierluigi Troglio, Jennie Mac Neil, Irene Agnelli; origine: Italia; produzione: Doria Cinematografica; durata: 107′
Alessandro, un giovane epilettico, vive rapporti conflittuali con la realtà che lo circonda, in particolare con la sua famiglia. Folgorante esordio del ventiseienne Marco Bellocchio, Vela d’argento per la miglior regia al Festival di Locarno: «Appena il racconto parte, non c’è più niente che lo ferma: come una lucida, inflessibile macchina, la carica demoniaco porta il folle protagonista, attraverso la distruzione degli altri, alla propria distruzione. È un impressionante personaggio che Bellocchio ha estrinsecato, per mezzo di un inedito e intelligente tipo di interprete, Lou Castel, con rara potenza registica. E, nella figura succube, pervertita e patetica della sorella, particolarmente brava e sensibile Paola Pitagora» (Sacchi).
ore 21.00
La strategia del ragno (1970)
Regia: Bernardo Bertolucci; soggetto: dal racconto Tema del traditore e dell’eroe di Jorge Luis Borges; sceneggiatura: B. Bertolucci, Eduardo De Gregorio, Marilù Parolini; fotografia: Vittorio Storaro, Franco Di Giacomo; scenografia e costumi: Maria Paola Maino; montaggio: Roberto Perpignani; interpreti: Giulio Brogi, Alida Valli, Pippo Campanini, Franco Giovannelli, Tino Scotti, Alle Midgette; origine: Italia; produzione: Red Film, Rai; durata: 98′
Athos Magnani arriva a Tara per cercare la verità sulla morte del padre, ucciso dai fascisti nel 1936. «”Tara” è come la parola detta da un bambino che incomincia a parlare; forse è il modo per dire “cara” alla madre. Non a caso questa città è nata dopo 2 o 3 mesi che avevo iniziato l’analisi, nel momento cioè di grandissimo entusiasmo per la scoperta freudiana. […] Non è assolutamente Parma [il film è girato a Sabbioneta]; Tara rappresenta anzi la rinuncia a Parma, forse perché questo bisogno di condannare la cultura paterna, io l’ho sentito in modo particolare, e credo sia presente un po’ in tutti i miei film» (Bertolucci). «L’opera è fra le più suggestive del nuovo cinema italiano, caratterizzata dalla magica ambiguità delle atmosfere e dall’aerea leggerezza della struttura narrativa che fondendo con grande sapienza un corposo realismo padano e surreali contemplazioni crepuscolari, trasmette un’inquietudine onirica profondamente segnata dalla malinconia di non poter conoscere il perché dei comportamenti umani e a non poter sfuggire alla presenza della morte» (Grazzini).
lunedì 24
chiuso
martedì 25
ore 17.00
Non c’è pace tra gli ulivi (1950)
Regia: Giuseppe De Santis; soggetto: G. De Santis, Gianni Puccini; sceneggiatura: Libero de Libero, Carlo Lizzani, G. De Santis, G. Puccini; fotografia: Piero Portalupi; scenografia: Carlo Egidi; costumi: Anna Gobbi; musica: Goffredo Petrassi; montaggio: Gabriele Varriale; interpreti: Raf Vallone, Lucia Bosè, Folco Lulli, Maria Grazia Francia, Dante Maggio, Michele Riccardini; origine: Italia; produzione: Lux Film; durata: 102′
«Il pastore Francesco Dominici, tornato dalla guerra, cerca invano lavoro nella sua terra segnata dagli eventi bellici. Una notte, per vendicarsi di un furto di pecore subito dalla sua famiglia e perpetrato dal losco Agostino Bonfiglio, arricchitosi con la borsa nera e l’usura, va a riprendersi le sue pecore con l’aiuto della sua innamorata Lucia e della sorella Maria Grazia, ma viene denunciato e arrestato» (Marco Grossi). «Ogni inquadratura sarebbe da citare, per mettere in rilievo la scultoreità delle pose, il bloccaggio degli sguardi, la composizione in profondità di campo e in diagonali che correlano i personaggi fra loro, la figurazione in contrasti estremi fra bianchi e neri. Se ne potrebbe dedurre un’impressione di staticità complessiva; essa è tuttavia animata, anzi musicalmente ritmata sia dagli stacchi di montaggio, che sono sistematicamente oppositivi, anche se non necessariamente dissonanti, sia dai movimenti di macchina, sempre tesi non ad accompagnare un’azione ma, visibili come sono, a “coreografarla”. […] Tutto questo rende difficile se non impossibile parlare di neorealismo, anche se alcuni referenti di cui il film di De Santis è debitore vengono ascritti a tale scuola: La terra trema (1948) di Luchino Visconti e In nome della legge (1949) di Pietro Germi; ma, appunto, sono film come questi a farci capire che sotto l’etichetta neorealista si celano – accomunate certo da analoghi propositi di denuncia sociale – le più contrastanti tendenze formali. Ma De Santis guarda oltre frontiera: a Orson Welles (al quale potrebbe ascriversi l’uso anomalo della voice over), al messicano Emilio Fernàndez (all’epoca assai considerato in Italia, e maestro dei contrasti bianco-neri col suo direttore della fotografia Gabriel Figueroa, al quale non è escluso che Piero Portalupi si sia ispirato per le luci di questo film), nonché ai sovietici più formalisti, non solo Sergej Ejzenštejn […] ma anche a registi come Grigorij Aleksandrov. E presumibilmente il didattismo esibito di Non c’è pace tra gli ulivi deve molto a questi ultimi» (Aprà).
Copia restaurata dalla Cineteca Nazionale
ore 19.00
In nome della legge (1949)
Regia: Pietro Germi; soggetto: Giuseppe Mangione dal romanzo Piccola pretura di Giuseppe Guido Lo Schiavo; sceneggiatura: Mario Monicelli, Federico Fellini, Tullio Pinelli, G. Mangione, P. Germi; fotografia: Leonida Barboni; scenografia: Gino Morici; musica: Carlo Rustichelli; montaggio: Rolando Benedetti; interpreti: Massimo Girotti, Jone Salinas, Charles Vanel, Camillo Mastrocinque, Saro Urzì, Turi Pandolfini; origine: Italia; produzione: Lux Film; durata: 99′
Un giovane pretore, inviato in un paese della Sicilia, combatte la mafia, ma si scontra con l’omertà della popolazione. La morte di un ragazzo con il quale ha stretto amicizia lo spinge ad andare avanti. «Il film unisce uno schema narrativo “all’americana”, di dichiarata ispirazione fordiana, al tentativo di porre le basi ideologiche e linguistiche di un cinema populista e civile» (Mereghetti). In un colpo solo Germi anticipa il cinema di impegno civile e il western all’italiana.
ore 21.00
Banditi a Orgosolo (1961)
Regia: Vittorio De Seta; soggetto e sceneggiatura: V. De Seta, Vera Gherarducci, in collaborazione con Mario Battesi, Pasquale Marotto; fotografia: Luciano Tovoli; scenografia: Elio Balletti; costumi: Marilù Carteny; montaggio: Iolanda Benvenuti, Fernanda Papa, V. De Seta; musica: Valentino Bucchi; interpreti: Michele Cossu, Peppeddu Cuccu, Vittorina Pisano; origine: Italia; produzione: Titanus; durata: 95′
«Verità ed emozione umana è […] proprio il pane di Banditi a Orgosolo. Verità coraggiosa ma spoglia, senza folclorismi ornamentali ma senza esibizionismi realistici, senza retoriche denuncie ma senza ufficiose sordine. Emozione profonda ma schiva, che si esprime solamente attraverso la pudica nudità dei sentimenti e dei fatti. Il film non è, in fondo, che il racconto di una solitudine, la disperata solitudine dell’uomo innocente e indifeso di fronte a una macchina sociale che è fatta per opprimerlo. Michele Jossu è un povero pastore sardo che guida il suo gregge sui monti di Orgosolo. Egli sta per conseguire il sogno che suo padre non era riuscito a realizzare in tutta la sua vita, diventare il proprietario del suo piccolo armento, quando un disgraziato caso comune in quei paesi di isolamento e di miseria (un carabiniere è ucciso nei paraggi della sua capanna da certi rapinatori di bestiame) lo addita come indiziato di omicidio alla giustizia» (Sacchi).
mercoledì 26
chiuso
venerdì 28
ore 17.00
Viaggio in Italia (1954)
Regia: Roberto Rossellini; soggetto e sceneggiatura: Vitaliano Brancati, R. Rossellini dalla novella Duo di Colette; fotografia: Enzo Serafin; scenografia: Piero Filippone; costumi: Fernanda Gattinoni; musica: Renzo Rossellini; montaggio: Jolanda Benvenuti; interpreti: Ingrid Bergman, George Sanders, Maria Mauban, Anna Proclemer, Paul Müller, Leslie Daniels, Natalia Ray; origine: Italia-Francia; produzione: Sveva Film, Junior Film, Italia Film, I.E.C., Ariane Film, Francinex; durata: 79′
Una coppia di coniugi inglesi in crisi si reca a Napoli. In una realtà completamente differente da quella abituale, i due ritrovavano sentimenti smarriti. Stroncato in Italia e in America, bocciato dal pubblico, amatissimo in Francia dai registi della nouvelle vague (Rivette disse che «con l’apparizione di Viaggio in Italiatutti i film sono improvvisamente invecchiati di dieci anni»), è il film con il quale Rossellini si pone oltre il neorealismo, a un passo dal (futuro) cinema dell’alienazione di Antonioni. «Dopo il neorealismo e prima del cinema esistenziale di Antonioni, Rossellini stacca la macchina da presa dai fatti e impone agli attori una recitazione straniata, arrivando a cogliere il senso profondo dell’alienazione contemporanea nella vuota attesa del Nulla, a cui però riesce ancora a trovare una soluzione» (Mereghetti).
ore 19.00
Totò e Carolina (1955)
Regia: Mario Monicelli; soggetto: Ennio Flaiano; sceneggiatura: Age & Scarpelli, M. Monicelli, Rodolfo Sonego; fotografia: Domenico Sala, Luciano Trasatti; scenografia e costumi: Piero Gherardi; musica: Angelo Francesco Lavagnino; montaggio: Adriana Novelli; interpreti: Totò, Anna Maria Ferrero, Gianni Cavalieri, Maurizio Arena, Arnoldo Foà, Fanny Landini; origine: Italia; produzione: Rosa Film; durata: 92′
Un agente di polizia ha il compito di riportare al paese una ragazza che a Roma aveva tentato il suicidio per una delusione d’amore. Film stravolto dalla censura («Si riscrivono i dialoghi del film: immagini e parole non si coniugano più», Argentieri) che conserva una sua vitalità grazie alla “malincomica” interpretazione di Totò e, per quel che rimane, a un beffardo ritratto della società italiana dell’epoca.
ore 21.00
Il grido (1957)
Regia: Michelangelo Antonioni; soggetto: M. Antonioni; sceneggiatura: M. Antonioni, Elio Bartolini, Ennio De Concini; fotografia: Gianni Di Venanzo; scenografia: Franco Fontana; costumi: Pia Marchesi; musica: Giovanni Fusco; montaggio: Eraldo De Roma; interpreti: Alida Valli, Steve Cochran, Betsy Blair, Dorian Gray, Lyn Shaw, Gabriella Pallotta; origine: Italia; produzione: S.P.A. Cinematografica; durata: 115′
Abbandonato dalla compagna, l’operaio Aldo si mette in viaggio con la figlia per cercare un lavoro che non riesce a trovare. Vivrà brevi avventure sentimentali e proverà a tornare con la compagna che lo respinge di nuovo… «In questo film, in cui pure si ritrova la tematica che mi è cara, pongo il problema dei sentimenti in modo diverso. Mentre prima i miei personaggi spesso si compiacevano dei loro dispiaceri e delle loro crisi sentimentali, nel Gridoabbiamo a che fare con un uomo che reagisce, che cerca di spezzare l’infelicità. Per questo ho usato più compassione nel tratteggiare il personaggio» (Antonioni).
sabato 29
ore 17.00
La sfida (1957)
Regia: Francesco Rosi; soggetto e sceneggiatura: F. Rosi, Suso Cecchi D’Amico, Enzo Provenzale; fotografia: Gianni Di Venanzo; scenografia: Franco Mancini; costumi: Marilù Carteny; musica: Roman Vlad; montaggio: Mario Serandrei; interpreti: Rosanna Schiaffino, Josè Suarez, Nino Vingelli, Pasquale Cennamo, José Jaspe, Rosita Pisano; origine: Italia/Spagna; produzione: Vides Cinematografica, Lux Film, Cinecittà, Suevia Film S.A.; durata: 87′Vito Polara, ambizioso giovanotto napoletano, dopo aver tentato il contrabbando di sigarette, riesce a sbaragliare il locale potere camorristico sul mercato ortofrutticolo inserendosi nell’organizzazione. In seguito al fidanzamento con Assunta, radiosa vicina di casa, giunge a contrarre vari debiti e ad acquistare un appartamento, incurante della vendetta in agguato. «Ciò che salva Rosi dall’accusa di eccessivo americanismo è di aver studiato la storia […] in un ambiente preciso, in una cornice non occasionale […]. Il serio esordio di Rosi rivela un temperamento di singolare rilievo, ma ancor debole nella costruzione di personaggi che, o sono incerti, come quello di Vito, o troppo secondari, come quello di Assunta […] o facili schemi come quello di Ajello. Il che non significa che l’opera non sia fra le più ragguardevoli degli anni più recenti del cinema italiano» (E. G. Laura).
ore 19.00
I fidanzati (1963)
Regia: Ermanno Olmi; soggetto e sceneggiatura: E. Olmi; fotografia: Lamberto Caimi; musica: Gianni Ferrio; montaggio: Carla Colombo; interpreti: Anna Canzi, Carlo Cabrini; origine: Italia; produzione: Società Editoriale Cinematografica Italiana 22 Dicembre, Titanus; durata: 76′
Giovanni è un operaio milanese che accetta di trasferirsi in Sicilia per ottenere una migliore qualifica professionale. Tuttavia si sente solo e ripensa agli affetti lasciati: al vecchio padre sistemato in una pensione privata e a Liliana, con la quale trascina un lungo fidanzamento. «Ma il discorso sull’ambiente operaio che Olmi fa nella prima parte del film è assai più soddisfacente, avanzato e impegnato, di quello che faceva sull’ambiente degli impiegati nella prima parte del Posto. Non troviamo più la presa in giro garbata gli intermezzi comici che avevano conquistato pubblico e critica. Il mondo operaio, a Milano e in Sicilia, è visto con una straordinaria partecipazione ed è inevitabile che la sola dimensione qui sia quella sottilmente tragica. Una tragedia in cui tutto crolla: l’amore, la prospettiva di far carriera, persino la presunzione di poter conquistare e difendere una certa dignità. La vita dell’operaio, al ballo milanese, o nella foresteria della fabbrica siciliana, o nella pensione per emigrati, è quotidianamente distrutta, consumata, rubata dal sistema industriale. E il quadro fatto da Olmi è tanto più impressionante e convincente, in quanto egli non parte con l’idea di descrivere la situazione di alienazione dell’operaio, ma vuole semplicemente seguire due personaggi presi dalla realtà e illustrare la crisi dei loro sentimenti. Una situazione analoga a quella dell’Eclisse. Anche qui l’eclisse dei sentimenti è determinata dalle leggi della società» (Fofi).
ore 21.00
La classe operaia va in paradiso (1971)
Regia: Elio Petri; soggetto e sceneggiatura: Ugo Pirro, E. Petri; fotografia: Luigi Kuveiller; scenografia: Dante Ferretti; costumi: Franco Carretti; musica: Ennio Morricone; montaggio: Ruggero Mastroianni; interpreti: Gian Maria Volonté, Mariangela Melato, Salvo Randone, Gino Pernice, Luigi Diberti, Donato Castellaneta; origine: Italia; produzione: Euro International Films; durata: 115′
«La classe operaia, e il suo portaparola funzionale Lulù Massa, operaio alla catena di montaggio, riguarda direttamente il problema della rappresentazione sulla scena della “classe operaia”, e dello spessore mitologico di cui “soffre” una tale rappresentazione. […] È dunque il film di Petri più radicalmente esposto, assieme a Todo modo – che ricordiamo fu un film anche di battaglia politica. E fu, conseguentemente, il film che più “divise”, laddove, in certo modo, Indagine poteva unire, nell’equivoco però. […] Così come la scena politica italiana era occupata dalle lotte operaie nelle fabbriche, altrettanto il discorso attorno al politico tendeva a doppiare la scena del reale investendola del desiderio, ammantandola del velo mitologico» (Rossi).
domenica 30
ore 17.00
Rocco e i suoi fratelli (1960)
Regia: Luchino Visconti; soggetto: L. Visconti, Vasco Pratolini, Suso Cecchi D’Amico ispirato a Il ponte della Ghisolfa di Giovanni Testori; sceneggiatura: L. Visconti, S. Cecchi D’Amico, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, Enrico Medioli; fotografia: Giuseppe Rotunno; scenografia: Mario Garbuglia; costumi: Piero Tosi; musica: Nino Rota; montaggio: Mario Serandrei; interpreti: Alain Delon, Annie Girardot, Renato Salvatori, Katina Paxinou, Roger Hanin, Paolo Stoppa; origine: Italia/Francia; produzione: Titanus, Les Films Marceau Cocinor; durata: 176′
Rocco è un meridionale che insieme ai fratelli e alla madre emigra a Milano per cambiare vita. In città la famiglia ritrova Vincenzo, in procinto di sposarsi, che introduce Simone nel mondo della pugilato. Rocco lavora in una lavanderia, mentre Ciro entra in fabbrica e Luca, che è ancora un bambino, rimane a casa con la madre… Memorabile affresco di una famiglia e, in controluce, dell’Italia in cerca del boom. «L’argomento vero del film sono […] i rapporti affettivi d’una famiglia meridionale e comunque italiana. Visconti, questi rapporti, li sente profondamente, con quasi dolorosa intensità. […] Forte, diretto e brutale benché a momenti un poco freddo, il film rispecchia fedelmente nelle sue compiacenze di crudeltà e di minuzia descrittiva le due componenti del singolare talento del regista: quella decadentistica e quella sociale» (Moravia).
ore 19.00
Mamma Roma (1962)
Regia: Pier Paolo Pasolini; soggetto e sceneggiatura: P.P. Pasolini; fotografia: Tonino Delli Colli; scenografia: Flavio Mogherini; montaggio: Nino Baragli; interpreti: Anna Magnani, Franco Citti, Ettore Garofalo, Silvana Corsini, Luisa Loiano, Paolo Volponi; origine: Italia; produzione: Arco Film; durata: 114′
«Quando il suo protettore (Citti) si sposa, la prostituta Mamma Roma (Magnani) decide di rifarsi una vita assieme al figlio Ettore (Garofalo). […] Il tema dell’incoscienza, o della diversa coscienza, proletaria è il centro del secondo film di Pasolini […] dove il regista nobilita i suoi personaggi con richiami alla pittura rinascimentale (il Cristo morto del Mantegna), e tocca vertici di pathos senza versare una lacrima: Mamma Roma rappresenta la femminilità dolente ma indistruttibile, mentre Ettore, scettico e prematuramente deluso dalla vita, è fratello ideale di Accattone, senza esserne una scialba replica. Quella della Magnani […] è una delle sue migliori interpretazioni. Il debuttante Garofalo fu scoperto dal regista mentre faceva il cameriere in una trattoria. Lo scrittore Paolo Volponi è il prete» (Mereghetti).
ore 21.00
I basilischi (1963)
Regia: Lina Wertmüller; soggetto e sceneggiatura: L. Wertmüller; fotografia: Gianni Di Venanzo; scenografia: Antonio Visone; musica: Ennio Morricone; montaggio: Ruggero Mastroianni; interpreti: Antonio Petruzzi, Stefano Satta Flores, Sergio Ferranino, Enrica Chiaromonte, Rosanna Santoro, Luigi Barbieri; origine: Italia; produzione: Galatea, 22 Dicembre Cinematografica; durata: 82′
«I basilischisono dei vitelloni in chiave meridionale: figli in genere di gente abbastanza agiata, studiano tutti per avere una laurea, ma, confinati come sono nella loro modesta cittadina rurale, non si fanno grandi illusioni per l’avvenire; passano il loro tempo in strada, cercando di abbondare qualcuna delle difficili ragazze del luogo, oppure vanno ad oziare in una specie di circolo culturale che, come vero scopo, ha soprattutto quello di distinguere i suoi soci dal resto dei loro concittadini, favorendo fino all’esasperazione il senso delle differenze di abitudini e di classe» (Rondi). «Io e Tullio Kezich, che era lì per scrivere un libro sulla lavorazione di Salvatore Giuliano, ci sistemammo nella buca dov’era piazzata la quinta macchina. […] Mentre si aspettava che cominciasse la scena, raccontai a Tullio come mi avessero impressionato i miei cugini e la vita di Palazzo San Gervasio, quel paese del profondo Sud, al confine tra Puglia e Basilicata. E gli descrissi quelle terre aspre e antiche e la vita che nei paesi si conduceva. Tullio mi disse: “Perché non scrivi questa storia? Se ne potrebbe fare un film insolito sul Sud, che mostri la vita dei paesi fuori dalle normali rotte di chi viaggia in Italia, e questo loro profondo oblomovismo”. “La scrivo”, dissi subito io. E a Roma la scrissi» (Wertmüller).