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Cineteca Classic ottobre 2012
02 Ottobre 2012 - 21 Ottobre 2012
Sono queste le ipotetiche “linee guida” di questo nuovo appuntamento di Cineteca Classic, nel mese di ottobre. Si comincia infatti con Ossessione, non a caso tratto proprio da un romanzo statunitense, ambientato e liberamente trasposto sulle rive del Po. Amour fou. Non mancano le incursioni nel gotico-melò nostrano, solo apparentemente fughe nel passato, in realtà utili espedienti non soltanto formali per raccontare il presente (le calligrafiche ed eleganti trasposizioni cinematografiche di Piccolo mondo antico e Malombra). Il melodramma è forse il genere più attento nel delineare il ritratto femminile attraverso il variegato corpo divistico. In tal senso Riso amaro, Anna e L’angelo bianco rappresentano, all’interno della cornice del melò, la donna negli anni Cinquanta attraverso due attrici diversissime tra loro: la misteriosa ed enigmatica Silvana Mangano e la larmoyant e nazional popolare Yvonne Sanson. Dal melodramma al fotoromanzo in una società in rapida trasformazione il passo è breve ma gli effetti sono tra l’onirico e l’apocalittico, anticipazioni di quel fenomeno chiamato boom (Lo sceicco bianco, ma anche Le notti di Cabiria, Souvenir d’Italie). E se Le infedeli è un magnifico esempio di emancipazione femminile, Una storia moderna: l’ape regina ne è il controcanto cinico e grottesco. Io la conoscevo bene, attraverso il volto e il corpo di Stefania Sandrelli, è uno invece dei film più crudeli nel cinema italiano, nel delineare la cosiddetta società dello spettacolo con la sua finta opulenza. Non c’è posto per i diversi e per gli animi nobili (La corruzione, Il posto), per sopravvivere bisogna essere dei mostri, omologati al più bieco conformismo (I mostri). Forse la soluzione rimane il riscoprire la nostra identità di italiani attraverso un viaggio nel tempo (Viva l’Italia, La pattuglia sperduta, Camicie rosse) anche se gli anni Settanta sono volutamente caratterizzati da un disordine. Tutto dopo il ’68 viene messo in discussione. Perfino l’amore rivela crudeltà terrificanti anche se il volto magnifico di Carole Andrè è angelicamente ingannevole (I tulipani di Haarlem). La cosiddetta industria culturale che aveva fiorito proprio negli anni Sessanta entra in crisi e l’intellettuale si sente perduto (Lettera aperta a un giornale della sera). I giovani hanno deciso di sfidare i propri genitori e la società attraverso la lotta armata (Caro papà). Se la società è un caos senza speranza (L’ingorgo) e i collegamenti mafia-Stato si fanno sempre più minacciosi (Cadaveri eccellenti, Confessione di un commissario di polizia al procuratore della repubblica); meglio rifugiarsi nel melodramma dove  l’Eros si coniuga, come di tradizione, a Thanatos (La viaccia, Morte a Venezia, Romeo e Giulietta).
 
martedì 2
ore 17.00
Ossessione (1943)
Regia: Luchino Visconti; soggetto: ispirato liberamente al romanzo The Postman Always Rings Twice di James Cain; sceneggiatura: L. Visconti, Mario Alicata, Giuseppe De Santis, Mario Puccini; fotografia: Aldo Tonti, Domenico Scala; scenografia: Gino Franzi; costumi: Maria De Matteis; musica: Giuseppe Rosati; montaggio: Mario Serandrei; interpreti: Massimo Girotti, Clara Calamai, Juan De Landa, Dhia Cristiani, Elio Marcuzzo, Vittorio Duse; origine: Italia; produzione: I.C.I. – Industrie Cinematografiche Italiane; durata: 140′
«Dal romanzo Il postino suona sempre due volte (1934) di James Cain: malmaritata a un uomo più vecchio di lei, una donna induce un giovane vagabondo di cui è diventata l’amante a uccidere il consorte in un incidente automobilistico truccato. Qualcosa di più di un film: una bandiera, un manifesto, un simbolo. Memorabile esordio di Visconti, aprì la strada al neorealismo postbellico, agganciò il cinema italiano alla cultura europea della crisi, fu la scoperta di un’Italia amara, fatta con violento pessimismo, tramite il filtro del romanzo nordamericano e del realismo francese di J. Renoir. Nonostante difetti, eccessi, compiacimenti estetizzanti, un ammirevole esempio di fusione tra realismo e decadentismo. […]. Marcuzzo (nel film lo Spagnolo) fu impiccato per errore con il fratello Armando (e seppelliti vivi) nell’aprile 1945 da una banda di partigiani, comandata dal sanguinario Gino Simionato detto il Falco che, con altri 3, fu indagato e prosciolto nel ’54 per amnistia» (Morandini). «In questi anni, proiettato in visioni private, censurato, amputato, reintegrato, apparso stentatamente qua e là, ha raccolto una tale messe di incondizionati osanna e di non meno accaniti crucifige!, ha suscitato tante diverse e, a volte, violente reazioni di pubblico e di critica, da costituire un caso singolare nella storia del cinema. […] il tentativo di rappresentare la realtà, contro tutte le archeologie e i divertimenti a formula fissa, è quello che conferisce al film i suoi quarti di nobiltà e che lo imparenta alla tradizione della grande arte, narrativa e figurativa, realistica sempre, perché formatrice e trasfiguratrice della realtà» (Antonio Pietrangeli).
 
ore 19.30
Piccolo mondo antico (1941)
Regia: Mario Soldati; soggetto: tratto dal romanzo omonimo di Antonio Fogazzaro; sceneggiatura: Mario Bonfantini, Emio Cecchi, Alberto Lattuada, M. Soldati; fotografia: Arturo Gallea (per gli esterni), Carlo Montuori (per gli interni); scenografia: Gastone Medin; costumi: Gino C. Sensani; musica: Enzo Masetti; montaggio: Gisa Radicchi Levi; interpreti: Alida Valli, Massimo Serato, Mariù Pascoli, Annibale Betrone, Ada Dondini, Giacinto Molteni; origine: Italia; produzione: A.T.A. – Artisti Tecnici Associati, I.C.I. – Industrie Cinematografiche Italiane; durata: 107′
«Nella Lombardia austriaca, Franco (Serato) sposa la figlia (Valli) di un modesto funzionario senza il consenso della nonna aristocratica (Dondini): inizia una persecuzione familiare che si concluderà solo dopo la morte della piccola Ombretta, figlia della sfortunata coppia. È uno dei risultati migliori della cosiddetta tendenza calligrafica, che reagì al clima fascista rivolgendosi alla letteratura nazionale ottocentesca ed esplorando con attenzione le possibilità formali del mezzo cinematografico. […]. In perfetta sintonia con l’idea di “realismo storico” propugnata dal regista, si muovono gli operatori Montuori e Gallea, ai quali va il merito delle splendide riprese in esterni (il paesaggio lombardo avvolto nella nebbia e immerso in luci sfumate, in cui giocano un ruolo fondamentale le evanescenti superficie acquatiche)» (Mereghetti).
 
ore 21.30
Malombra (1942)
Regia: Mario Soldati; soggetto: tratto dal romanzo omonimo di Antonio Fogazzaro; sceneggiatura: Mario Bonfantini, Renato Castellani, Ettore Maria Margadonna, Tino Richelmy, M. Soldati; fotografia: Massimo Terzano; scenografia: Gastone Medin; costumi: Maria De Matteis; musica: Giuseppe Rosati; montaggio: Gisa Radicchi Levi, Giovanni Paolucci (non accreditati); interpreti: Isa Miranda, Andrea Checchi, Irasema Dilian, Gualtiero Tumiati, Giacinto Molteni, Ada Dondini; origine: Italia; produzione: Lux Film; durata: 136′
Quando rimane orfana, la giovane marchesa Marina di Malombra viene ospitata da un vecchio zio materno in un’enorme e lussuosa villa sul lago di Como, a patto che resti segregata lì fino al giorno del suo matrimonio. Mentre sta vagando per la sua tetra “prigione dorata” nella speranza di sfuggire al senso di solitudine che la tormenta, un giorno la ragazza trova delle lettere e dei documenti appartenenti a una sua antenata morta suicida. Li legge e, suggestionandosi sempre più, arriva a credere di essere la reincarnazione della donna. «Isa Miranda restituisce bene il crescendo di pazzia che stravolge il personaggio, per quanto, com’è noto, Soldati avrebbe preferito Alida Valli […]; e così, nel ricordo, la Miranda si trasforma nel capro espiatorio di tutti i difetti del film, che pure resta uno dei più amati da Soldati, il primo “girato credendo nel cinema”. […]. In realtà, a proposito di “pagine da antologia”, anche il film finito ne contiene una rimasta celebre, tra le cose più belle del cinema di Soldati e della produzione italiana del tempo […]. Si tratta dell’ultima sequenza, quella del “pranzo funebre” tanto amata da Visconti: sfuggendo ogni consuetudine visiva da “dramma della follia”, Soldati racconta l’apice della perdizione di Marina ricorrendo soprattutto a elementi scenografici e fotografici, al vento sibilante, alla luce tremula delle candele, accese nonostante sia giorno, e a un impasto luministico dai toni lividi e realisti […]; sembra uscita da un film di Stroheim e ricorda da vicino l’analoga scena della Malombra di Gallone (1917)» (Malavasi).
 
mercoledì 3
ore 17.00
Riso amaro (1949)
Regia: Giuseppe De Santis; soggetto: G. De Santis, Carlo Lizzani, Gianni Pucini; sceneggiatura: Corrado Alvaro, G. De Santis, C. Lizzani, Carlo Musso, Ivo Perilli, Gianni Puccini; fotografia: Otello Martelli; scenografia: Carlo Egidi; costumi: Anna Gobbi; musica: Goffredo Petrassi; montaggio: Gabriele Varriale; interpreti: Vittorio Gassman, Silvana Mangano, Raf Vallone, Doris Dowling, Checco Rissone, Nico Pepe; origine: Italia; produzione: Lux Film; durata: 110′
«Francesca, indotta dal suo amante Walter, ruba una preziosa collana a un cliente dell’albergo in cui lavora come cameriera. Per sfuggire alla polizia si unisce alle mondine che stanno partendo in treno per la stagione lavorativa. Tra le mondariso c’è anche Silvana, un’affascinante ragazza con la testa piena di sogni. Silvana scopre la vera identità di Francesca e riesce a impossessarsi della collana rubata. Walter, per riprendere la collana, cerca di sedurre Silvana, che aveva stretto una relazione con Marco, un giovane sergente in servizio nei pressi della risaia» (Marco Grossi). «Le ragioni per le quali Riso amaro resta un caposaldo emblematico del periodo più fertile del cinema italiano – che possono aiutarci a capire meglio lo stesso fenomeno del neorealismo – sono assai forti. Fin dalla sua nascita il neorealismo sollevò, soprattutto tra i critici italiani, il problema di quanto fosse un movimento unitario, in che misura e perché autori tanto eterogenei […] e di umori così vari fossero visti dalla critica di tutto il mondo come parte di una scuola piuttosto omogenea: dal sofisticato Luchino Visconti al sanguigno De Santis, dal cronachistico Roberto Rossellini al patetico e appassionato Vittorio De Sica. E molti se lo domandano ancora oggi. Proprio Riso amaro (vi giocano la favola e la tranche de vie, il romanzo e il grand guignol, il corale e l’individuale) sembra raccogliere in sé alcune delle aporie più lampanti del neorealismo. Ma se Riso amaro fosse invece un pastiche sia pure geniale, il frutto di una semplice giustapposizione di motivi diversi? Se poi il neorealismo non esistesse, come taluni hanno voluto ribadire in questi ultimi decenni? […] Il rischio di una verifica di tali ipotesi su Riso amaro è alto, ma l’omogeneità del fenomeno Riso amaro è un fatto certo. Avrebbe altrimenti avuto, questo film, la capacità deflagrante – esso sì – di una bomba, se fosse soltanto una aggregazione aritmetica degli elementi che lo compongono? Riso amaro, insomma, come la più suggestiva metafora del neorealismo storico» (Lizzani). Nomination all’Oscar a Giuseppe De Santis e Carlo Lizzani per il miglior soggetto.
 
ore 19.00
Anna (1951)
Regia: Alberto Lattuada; soggetto e sceneggiatura: Giuseppe Berto, Franco Brusati, Ivo Perilli, Dino Risi, Rodolfo Sonego [e Luigi Malerba]; fotografia: Otello Martelli; architetto: Piero Filippone; arredatore: Gino Brosio; musica: Nino Rota; montaggio: Gabriele Varriale; interpreti: Silvana Mangano, Gaby Morlay, Raf Vallone, Jacques Dumesnil, Vittorio Gassman, Patrizia Mangano; origine: Italia/Francia; produzione: Lux Film, Lux Film CCF; durata: 107′
«Anna è una sirena di locali notturni, è l’amante del barista (Vittorio Gassman), cui ella soggiace con l’oscura impressione d’una degradazione e d’una colpa, come al vizio d’una droga. Si innamora di lei un giovane signore di campagna (Raf Vallone) in cui ella intuisce che cosa può essere il compagno ed amico di tutta una vita. […]. L’ambiente in cui si svolge gran parte del nuovo film di Alberto Lattuada, Anna, un ospedale modernissimo, e precisamente il nuovo Ospedale Maggiore di Milano, sembrerebbe l’ambiente d’un documentario realizzato con estrema abilità. […] Non si può dire che il regista non abbia approfittato di questa visione che avrebbe esaltato un Balzac, con la sua gelida sinfonia di bianchi, lacche, vernici, biancheria. Per poco, un documentario simile non diventa allucinante» (Alvaro). «Rota aveva scritto tutto il commento di Anna, ma non so per quali ragioni non aveva scritto la canzone di Silvana Mangano. […] Fui chiamato da Alberto Lattuada per scrivere quella canzone. È stato un enorme successo mondiale, che dura ancora. La Mangano, doppiata da Flo Sandon’s, cantava (e ballava) El negro Zumbòn» (Trovajoli).
 
ore 21.00
L’angelo bianco (1955)
Regia: Raffaello Matarazzo; soggetto: R. Matarazzo, Giovanna Soria, Piero Pierotti; sceneggiatura: Aldo De Benedetti; fotografia: Tonino Delli Colli; scenografia: Ottavio Scotti; musica: Michele Cozzoli; montaggio: Mario Serandrei; interpreti: Amedeo Nazzari, Yvonne Sanson, Enrica Dyrell, Alberto Farnese, Flora Lillo, Philippe Hersent; origine: Italia; produzione: Titanus, Labor Film; durata: 98′
Dalla sua relazione con Luisa, che successivamente ha preso il velo, il Conte Guido Carani ha avuto un figlioletto. Quando questo viene a morire, il conte sente di non poter più vivere con la moglie Elena, che a suo tempo s’era adoperata, d’accordo con la madre di lui, per impedire che sposasse Luisa. Costretta ad accettare la separazione consensuale, Elena lascia la casa, portando con sé la figlioletta; ma entrambe periscono durante la fuga in mare. Sconvolto da questa seconda tragedia, il conte s’abbandona alla più cupa disperazione; soltanto l’intenso lavoro varrà a fargli trovare qualche interesse nell’esistenza. Durante un viaggio in treno il conte conosce Lina, un’attrice che assomiglia in modo impressionante a Luisa, il cui ricordo è sempre vivo in lui. Lina è impressionata dallo strano comportamento del conte, il quale sembra voglia evitare di rivederla, mentre evidentemente si sente attratto verso di lei. Lina, che ha delle amicizie poco raccomandabili, viene consigliata a sfruttare lo stato d’animo del conte: ella dapprima si presta al gioco, poi la stima e la simpatia che il conte ha destato in lei, le impediscono di assecondare i desideri dell’amico. «Siamo in pieno clima “fantastico”. La doppia parte interpretata da Yvonne Sanson non può non ricordare uno dei capolavori del cinema fantastico e cioè Vertigo di Alfred Hitchcock (cineasta con cui Matarazzo ha più di un punto in comune, se non altro per la capacità di ridurre a puro lessico gli elementi canonici del genere). […] Il finale del film è addirittura surreale. Dal neorealismo siamo giunti all’espressionismo, dalla logica al delirio» (Aprà). 

 

domenica 7
ore 17.00
Lo sceicco bianco di Federico Fellini(1952)
Regia: Federico Fellini; soggetto: Michelangelo Antonioni, F. Fellini, Tullio Pinelli; sceneggiatura: F. Fellini, T. Pinelli, Ennio Flaiano; fotografia: Arturo Gallea; scenografia: [Raffaele] Tolfo; musica: Nino Rota; montaggio: Rolando Benedetti; interpreti: Alberto Sordi, Brunella Bovo, Leopoldo Trieste, Giulietta Masina, Lilia Landi, Ernesto Almirante; origine: Italia; produzione: P.D.C.; durata: 87′
«Con il pretesto di un viaggio a Roma di due sposini provinciali, questo film di Federico Fellini ci descrive i più caratteristici atteggiamenti psicologici della piccola borghesia: l’ansia di sogni e di evasione, che le donne sfogano nei giornali a fumetti, e il culto di un tradizionalismo spicciolo che gli uomini professano ripetendo, quando sono in viaggio di nozze, gli stessi itinerari dei loro padri e dei loro nonni, e osservando a tal segno i canoni della sottomissione familiare da rispettare come un feticcio lo zio che si è trasferito a Roma e che è diventato qualcuno all’ombra del Vaticano. Wanda, la sposina, si perde infatti alla ricerca dello Sceicco Bianco, un eroe dei “fumetti” le cui avventure le hanno fatte passare molte notti insonni. Ivan, lo sposino sconvolto per la scomparsa della moglie, ha una sola preoccupazione, quella di nasconderla allo zio e a tutta la sua famiglia che chissà mai a quali congetture si abbandonerebbero di fronte a un simile fattaccio» (Rondi).
 
ore 19.00
Le notti di Cabiria (1957)
Regia: Federico Fellini; soggetto e sceneggiatura: F. Fellini, Ennio Flaiano, Tullio Pinelli, da un’idea di F. Fellini; collaborazione ai dialoghi: Pier Paolo Pasolini; consulenza artistica: Brunello Rondi; fotografia: Aldo Tonti; fotografia sequenze aggiunte: Otello Martelli; scenografia e costumi: Piero Gherardi; musica: Nino Rota; montaggio: Leo Catozzo; interpreti: Giulietta Masina, François Perier, Amedeo Nazzari, Aldo Silvani, Dorian Gray, Franca Marzi; origine: Italia/Francia; produzione: Dino De Laurentiis Cinematografica, Les Films Marceau; durata: 111′
«Come già nella Strada, del 1954, Fellini pone la figura clownesca e innocente della moglie Giulietta Masina a diretto contatto con le brutture e le nefandezze della vita quotidiana: dall’accostamento nasce un film gentile e ironico, sorta di omaggio al cialtronesco mondo delle borgate romane, in cui il regista tiene a sottolineare l’esistenza della Grazia, cattolicamente intesa, qui incarnata in un gruppo di giovani che “ridestano alla vita” (e al sorriso) Cabiria dopo che un cliente l’aveva ingannata con una promessa di matrimonio e poi derubata. In un ruolo a lei estremamente congeniale, la Masina ottenne, grazie a questo film, un’enorme popolarità, anche all’estero e vinse la Palma d’oro a Cannes. Ma su tutti, svetta comunque Nazzari, strepitoso nella sua straordinaria presa in giro di un divo del cinema. Nastro d’argento e Oscar come miglior film straniero» (Mereghetti).
 
ore 21.00
Souvenir d’Italie (1957)
Regia: Antonio Pietrangeli; soggetto: Age & Scarpelli, da un’idea di Fabio Carpi e Nelo Risi; sceneggiatura: Age & Scarpelli, Dario Fo, A. Pietrangeli [non accreditato Armando Crispino]; scenografia: Mario Chiari; costumi: Marilù Carteny; fotografia: Aldo Tonti; musica: Lelio Luttazzi; montaggio: Eraldo da Roma; interpreti: June Laverick, Vittorio De Sica, Isabelle Corey, Ingeborg Schoener, Isabel Jeans, Massimo Girotti; origine: Italia; produzione: Athena Cinematografica; durata: 109′
Le avventure sentimentali di tre ragazze straniere in giro per l’Italia in autostop. «Il film contiene, a giudizio mio, un capitoletto eccezionale, incisivamente buffo, sostenuto da un Alberto. Sordi straordinariamente in vena. Dunque: Sordi e il mantenutello (Sergio) di una preziosa tardona (Cynthia [Isabel Jeans]) che lo ninna e lo vezzeggia in una culla d’oro. Tema arduo e antipatico se mai ve ne furono; ma guardate come lo svolge don Alberto, qui è veramente nelle sue corde, oppure baciato in fronte con la massima foga da Talia. È un Sordi, accidenti a lui, che sfido chiunque a descrivere. “Ma quale culla d’oro? Gabbia, cari miei, gabbia”, sembra dirci. È infantile e decrepito, ingenuo e corrotto, saggio e scemo, tiranno e schiavo. […] Che veloce e nitido capolavoro di ipocrisia, di innocente bassezza, di piacevole trivialità, è il Sergio di Alberto Sordi. Vi rimarrà a lungo in mente. […] L’altro motivo che mi induce a suggerirvi di non perdere questo film, è l’Italia in technicolor e in technirama. Gesù. Dall’inizio alla fine, quale meraviglia, quale incanto, quale festa delle feste geologiche è il nostro paese. Che diavolo abbiamo fatto, sentiamo, per averlo noi, proprio noi?» (Marotta).
 
lunedì 8
chiuso
 
martedì 9
ore 17.00
Le infedeli di Steno, Mario Monicelli (1953)
Regia: Steno, Mario Monicelli; soggetto: Ivo Perilli; sceneggiatura: Franco Brusati, I. Perilli, Steno, M. Monicelli; fotografia: Aldo Tonti, Luciano Trasatti; scenografia: Flavio Mogherini; costumi: Piero Gherardi; musica: Armando Trovajoli; montaggio: Renato Cinquini; interpreti: Gina Lollobrigida, May Britt, Anna Maria Ferrero, Marina Vlady, Pierre Cressoy, Tina Lattanzi, Irene Papas; origine: Italia; produzione: Excelsa Film; durata: 100′
Un ricco medico incarica un investigatore senza scrupoli di seguire la moglie perché sospetta un adulterio. In realtà vorrebbe liberarsi della moglie per poter stare con l’amante. L’investigatore riesce ad inserirsi nell’alta società grazie a sotterfugi e ricatti. «È un’operazione molto intelligente, un melodramma che unisce le tinte forti di Matarazzo all’atmosfera più fredda e borghese dell’Antonioni di Cronaca di un amore» (Della Casa).
 
ore 19.00
Una storia moderna: l’ape regina (1963)
Regia: Marco Ferreri; soggetto: Goffredo Parise; sceneggiatura: Rafael Azcona, Marco Ferreri; collaborazione alla sceneggiatura: Diego Fabbri, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa; scenografia: Massimiliano Capriccioli; costumi: Luciana Marinucci; interpreti: Ugo Tognazzi, Marina Vlady, Walter Giller, Linda Sini, Riccardo Fellini, Igi (Gianluigi) Polidoro; origine: Italia/Francia; produzione: Sancro Film, Cocinor, Films Marceau; durata: 92′
Il matrimonio secondo Ferreri: tomba dell’amore e non solo… Un quarantenne si decide a compiere il grande passo portando all’altare una ragazza molto più giovane, illibata e di buona famiglia. Ma la coppia “scoppia” sotto il peso delle convenzioni. Primo film “italiano” del regista milanese, il quale sovverte l’ordine familiare scatenando la reazione della censura, che manomette il film e cambia il titolo (Una storia moderna: l’ape regina) per circoscrivere l’attacco del regista a una critica della modernità. Con tanto di dichiarazione in apertura, imposta a Ferreri, di difesa dei «solidi e immutabili principi della morale e della religione». Dichiarazione di principio che non resiste all’urto del film, che valse a Marina Vlady il premio a Cannes per la migliore interpretazione femminile.
 
ore 21.00
Io la conoscevo bene (1965)
Regia: Antonio Pietrangeli; soggetto e sceneggiatura: A. Pietrangeli, Ruggero Maccari, Ettore Scola; fotografia: Armando Nannuzzi; scenografia e costumi: Maurizio Chiari; musica: Piero Piccioni; montaggio: Franco Fraticelli; interpreti: Stefania Sandrelli, Enrico Maria Salerno, Nino Manfredi, Ugo Tognazzi, Mario Adorf, Jean-Claude Brialy; origine: Italia/Francia/Germania; produzione: Ultra Film, Le Film du Siècle, Roxy Film; durata: 117′
Adriana, una bella ragazza di campagna, dal Pistoiese si trasferisce a Roma in cerca di fortuna. Comincia a lavorare come domestica, poi fa la parrucchiera, quindi la maschera in un cinema, poi la cassiera in un bowling. Credulona, ingenua, ignorante, attratta soltanto dai dischi e dal ballo, mentre passa da un mestiere all’altro, subisce con indifferenza e con amoralità ogni compagnia maschile che le si presenta. Ma il suo non è calcolo, bensì fragilità, incoscienza e bisogno d’affetto. Di lei tutti approfittano, ma Adriana non se ne accorge e, nonostante tutto, piena di speranza, affida il denaro guadagnato a un ambiguo agente che le profila la possibilità di fare del cinema. In realtà, Adriana non farà che alcuni inserti pubblicitari; prenderà parte come comparsa ad un film mitologico; presenterà qualche vestito in teatrini di provincia. Né la nostalgia del paese d’origine, né l’interruzione di un’incipiente maternità riusciranno a salvarla. «Io la conoscevo bene, diranno tutti coloro che si sono serviti della sua freschezza; al contrario, nessuno aveva penetrato nella confusa realtà dove nemmeno lei sapeva orientarsi […]. Non è soltanto la storia d’una provinciale bruciata […] è anche un segnale d’allarme per chi si creda […] in diritto di scagliare una pietra, assolvendosi con la pietà. Il film ha difetti […] ma non tali da mettere in pericolo la solidità della struttura […]. L’interpretazione della Sandrelli […] ha […] una buona spontaneità di riflessi, sempre al livello di una naturalezza priva di retroterra culturale. Dei molti uomini […] si devono ricordare almeno Tognazzi, nella sua parte d’un guitto […] e Manfredi, che disegna un’equivoca figura di talent scout» (Grazzini).
 
mercoledì 10
ore 17.00
La corruzione (1963)
Regia: Mauro Bolognini; soggetto: Ugo Liberatore; sceneggiatura: U. Liberatore, Fulvio Gicca; fotografia: Leonida Barboni; scenografia e costumi: Maurizio Serra Chiari; musica: Giovanni Fusco; montaggio: Nino Baragli; interpreti: Jacques Perrin, Rosanna Schiaffino, Alain Cuny, Isa Miranda, Filippo Scelzo, Ennio Balbo; origine: Italia/Francia; produzione: Arco Film, S.O.P.A.C., Burgundia Film; durata: 83′
Stefano Mattioli, giovane figlio di un ex partigiano divenuto ricco industriale dell’editoria, terminati gli studi esprime la vocazione al sacerdozio. Il padre, per distoglierlo da tale proposito, lo fa sedurre da Adriana, sua giovane segretaria e amante, nel corso di una crociera in yacht. Nuovamente combattuto tra l’intima aspirazione ad esprimere la generosità e la sincerità della sua giovinezza e l’amara realtà di un mondo mediocre, Stefano rimarrà preda del suo dubbioso senso di ribellione. «Che Bolognini abbia talento e gusto da vendere lo prova […] l’incredibile trasformazione da lui operata su Rosanna Schiaffino: una prova che ricorda gli esperimenti di Sternberg su Marlene. Con i capelli corti e la frangetta, il volto reso più bello da una nuova impostazione del trucco, fotografata magistralmente dall’operatore Barboni, la Schiaffino ci rimanda a Moravia: si direbbe la Cecilia di “La noiaraccontata da Scott Fitzgerald» (Kezich). «In questo film c’è forse la più bella, la più intensa, la più lirica scena erotica del nostro cinema: quando il giovane Stefano […] è raccolto nelle braccia da Adriana, e per la prima volta si abbandona a una donna, in uno smarrimento dove è stupore, vertigine e il casto e palpitante tremore dell’iniziazione, e intorno a cui, con un gioco irreale di luci, di specchi, di rifrazioni, Bolognini crea un alone di sognante e voluttuosa magia (e deve essere detto che in questa scena, accanto a Jacques Perrin, Rosanna Schiaffino riesce a rendere qualche bel momento di rapita e trasfigurata dolcezza)» (Sacchi).
 
ore 19.00
Il posto (1961)
Regia: Ermanno Olmi; soggetto e sceneggiatura: E. Olmi; fotografia: Lamberto Caimi; scenografia­: Ettore Lombardi; musica:Pier Emilio Bassi; montaggio:Carla Colombo;interpreti: Loredana Detto, Alessandro Panseri, Tullio Kezich, Mara Ravel, Guido Chiti, Bice Melegari; origine: Italia; produzione: The 24 Horses; durata:93′
Domenico, un ragazzo della Brianza, lascia il suo paese per andare a cercare a Milano un posto fisso in una grande azienda. Si presenta all’esame di assunzione e, durante la pausa pranzo, conosce una ragazza, Antonietta, anche lei in cerca di un posto. I due, dopo una serie di esami, vengono assunti, ma in reparti diversi. I sentimenti dei due giovani verranno messi a dura prova dai tempi tirannici della fabbrica e dalle difficoltà quotidiane. Domenico lavora come fattorino in attesa che se ne liberi uno da impiegato. La scrivania rappresenta la tranquillità, il miraggio della felicità. Ma il posto fisso non riesce a sanare le ferite di sentimenti traditi. «[Il posto] racconta la storia di un ragazzo che, finite le scuole di avviamento al lavoro, le tre classi dopo le elementari, va a lavorare in una grande azienda. Perciò ho preso spunto da un percorso che ho sperimentato, raccontando poi situazioni che non mi sono inventato, ma che sono tanti frammenti di vita che ho osservato in quel mondo che ho attraversato nei primi anni della giovinezza» (Olmi).
 
ore 21.00
I mostri (1963)
Regia: Dino Risi; soggetto e sceneggiatura: Age[nore] & [Furio] Scarpelli, Elio Petri, D. Risi, Ettore Scola, Ruggero Maccari; fotografia: Alfio Contini; scenografia e costumi: Ugo Pericoli; musica: Armando Trovajoli; montaggio: Maurizio Lucidi; interpreti: Ugo Tognazzi, Vittorio Gassman, Ricky Tognazzi, Franco Castellani, Lando Buzzanca, Maria Mannelli, Marisa Merlini, Michèle Mercier; origine: Italia/Francia; produzione: Fair Film, Incei Film, MontFlour Film, Dicifrance; durata: 123′
Dino Risi costruisce in 22 episodi, di durate diverse, un ritratto crudele e graffiante dell’Italia del miracolo economico, tra vecchie e nuove manie, vizi e malcostumi. Tra i bersagli alcuni dei topoi della commedia all’italiana: il consumismo, la coppia, la spiaggia, l’automobile. Tutti gli episodi sono interpretati, insieme o alternativamente, da Ugo Tognazzi e Vittorio Gassman, impegnati in un tour de force di caratterizzazioni comiche. «Un altro film importante che metterei fra i cinque o sei della mia filmografia, che è I mostri, in cui c’è se non altro da ricordare l’episodio finale della boxe che secondo me sono dieci minuti proprio di cinema notevole, in tutti i sensi» (Gassman).
Restauro della Cineteca Nazionale con il contributo di Sky Cinema 

 

venerdì 12
ore 17.00
Viva l’Italia (1961)
Regia: Roberto Rossellini; soggetto: Antonio Petrucci, Luigi Chiarini, Sergio Amidei, Carlo Alianello; sceneggiatura: Antonello Trombadori, R. Rossellini, A. Petrucci, Diego Fabbri, S. Amidei; fotografia: Luciano Trasatti; musica: Renzo Rossellini; scenografia: Gepi Mariani; costumi: Marcella De Marchis; interpreti: Renzo Ricci, Paolo Stoppa, Franco Interlenghi, Giovanna Ralli; origine: Italia/Francia; produzione: Cinematografica Rire, Cineriz, Tempo Film, Galatea, Francinex; durata: 129′
La spedizione dei Mille rievocata a cento anni di distanza. «Rossellini si è attenuto qui ad una narrazione episodica, dando largo spazio alle pagine storiche, ai retroscena politici, ai piccoli fatti di cronaca e mettendo dichiaratamente l’accento sulla figura centrale di Garibaldi, interpretata in una chiave che, se resta tradizionale quando di quel carattere ci esprime i proverbiali aspetti di generosità, di filantropia e di coraggio, si fa volutamente dimessa quando cerca di metterne in luce i lati più domestici ed umani, la miopia, la necessità di leggere i proclami e non di improvvisarli, i reumatismi, le pantofole, il caffè a letto, ed altro ancora. È, questa chiave, la sola novità del film» (Rondi).
 
ore 19.30
La pattuglia sperduta (1953)
Regia: Piero Nelli; soggetto e sceneggiatura: Franco Cristaldi, Yvon De Begnac, Oscar Navarro, P. Nelli; fotografia: Alfieri canavero; scenografia: Alberto Da Corte, Arturo Midana; costumi: Carla Simonetti; musica: Goffredo Petrassi; montaggio: Enzo Alfonsi; interpreti: Sandro Isola, Giuseppe Aprà, Giuseppe Raumer, Giorgio Luzzatti, Annibale Biglioni, Giuseppe Natta, origine: Italia; produzione: Vides; durata: 77′
«20 settembre 1849: sperduti nella campagna novarese, otto soldati piemontesi guidati dal capitano Salviati (Isola) cercano di raggiungere le divisioni del generale Ramorino. Faranno il possibile per infliggere qualche perdita al nemico, ma scopriranno che gli austriaci hanno vinto che gli austriaci hanno vinto la guerra. L’esordio nel lungometraggio di un documentarista […] ricostruisce una pagina nera del nostro Risorgimento limitando, fino alle scene finali, ogni concessione alla retorica. La scelta di attori non professionisti, l’impatto narrativo della nebbia e della campagna devastata, le notazioni di classe vicine alla lezione gramsciana (il ruolo della borghesia, nell’incontro tra il tenente Airoldi [Aprà] e la sua famiglia), la sottolineatura delle sofferenze subìte dal popolo ne fanno un’opera innovativa e – nelle sue scelte antispettacolari – coraggiosa. […]. Prodotto nel 1952 e uscito col titolo di Vecchio Regno, fu ridotto di una quindicina di minuti e rititolato La pattuglia sperduta» (Mereghetti).
 
ore 21.00
Camicie rosse (Anita Garibaldi) (1952)
Regia: Goffredo Alessandrini, Francesco Rosi; soggetto: Enzo Biagi, Renzo Renzi; sceneggiatura: E. Biagi, R. Renzi, Mario Serandrei, Sandro Bolchi, [non accreditati Suso Cecchi D’Amico, Nino Frank, Anna Magnani]; fotografia: Leonida Borboni, Mario Parapetti, Marco Scarpelli; scenografia: Alfredo Montori; costumi: Piero Gherardi; musica: Enzo Masetti; montaggio: M. Serandrei; interpreti: Raf Vallone, Anna Magnani, Serge Reggiani, Carlo Ninchi, Michel Auclair, Jacques Sernas; origine: Italia; produzione: P.G.F.; durata: 103′
«La vita e le imprese di Garibaldi dalla caduta della Repubblica romana, nel 1819, alla fuga verso Venezia, alla morte di Anita. Verso la fine delle riprese Alessandrini abbandonò il set per motivi “sconosciuti”, ma che andavano ricercati in disaccordi con la produzione e con Anna Magnani (che era coproduttrice del film). Proprio grazie alla Magnani, per terminare il film, fu scelto l’esordiente Rosi […]. Il film fu prodotto dalla P.G.F. (Produzione Grandi Film) di Bologna (Alberto Giovagnoli). Bolognesi erano Biagi e Renzi, il musicista Masetti e gli attori Ninchi e Fantoni » (Chiti-Poppi).
 
sabato 13
ore 17.00
I tulipani di Haarlem (1970)
Regia: Franco Brusati; soggetto e sceneggiatura: F. Brusati, Sergio Bazzini; fotografia: Luciano Tovoli; scenografia: Luigi Scaccianoce; costumi: Danda Ortona; musica: Benedetto Ghiglia; montaggio: Mario Morra; interpreti: Carol André, Frank Grimes, Gianni Garko, Gianni Giuliano, Pierre Cressoy, Philippe Hersent; origine: Italia/Francia; produzione: P.I.C. – Produzione Intercontinentale Cinematografica, Ultra Film, P.E.C.F.; durata: 98′
«Diagramma di una schiavitù amorosa cui viene ridotto un giovane impiegato frustrato per opera di una sedicenne reduce da un tentato suicidio. Su uno sfondo di suggestivi paesaggi fiamminghi (omaggio a René Magritte nei titoli), in bilico tra reale e immaginario con impennate liriche, è un film insolito, elegante, crudele e un po’ specioso sulla solitudine e l’impossibilità di rapporti tra esseri umani: l’amore di Pierre, succubo, e di Sarah, incuba, maschera un duplice narcisismo; la loro infelicità reciproca è frutto di una fuga dalla realtà» (Morandini).
 
ore 19.00
Lettera aperta a un giornale della sera (1970)
Regia: Francesco Maselli; soggetto e sceneggiatura: F. Maselli; fotografia: Gerardo Patrizi; scenografia: Gabriele D’Angelo; costumi: Lina Nerli Taviani; musica: Giovanna Marini; montaggio: Rolando Salvadori; interpreti: Nanni Loy, Mariella Palmich, Viero Faggioni, Graziella Galvani, Daniele Dublino, Laura De Marchi; origine: Italia; produzione: Vides Cinematografica, Italnoleggio; durata: 121′
«Lettera aperta a un giornale della sera (1970), un film sulla contraddizione – quella della “politica” vista esistenzialmente e della “esistenza” vista politicamente […], appare, anche a distanza, uno dei più significativi, e sintomatici, documenti intellettuali di fine anni ’60: dove il tono fotografico delle immagini, la tecnica delle riprese, la qualità degli sfondi e dell’ambientazione, i ritmi del montaggio puntano, infatti, a delineare una vera e propria stilizzazione del malessere (morale, politico, ideologico); in un periodo chiave della nostra recente storia, restituendo per un attimo al cinema quel valore testimoniale che esso aveva avuto nelle stagioni immediatamente postbelliche. Nel film sette amici comunisti decidono, con una “lettera aperta ad un giornale della sera”, appunto, di non firmare più appelli per il Viet-Nam, e di partire volontari per quel fronte. Ma quella che voleva essere una semplice provocazione finisce per diventare una cosa seria, mettendo in crisi il gruppo, le sue intricate relazioni interne, il rapporto con il partito, l'”esistenza” e la “politica”, insomma. Fino a quando giunge da Hanoi un cortese, ma fermissimo rifiuto. E tutto, con le vecchie e nuove contraddizioni, riprende come prima» (Micciché).
 
ore 21.15
Caro papà (1979)
Regia: Dino Risi; soggetto e sceneggiatura: Bernardino Zapponi, Marco Risi, D. Risi; fotografia: Tonino Delli Colli; musica: Manuel De Sica; scenografia: Luciano Ricceri; costumi: Danda Ortona; montaggio: Alberto Galletti; interpreti: Vittorio Gassman, Aurore Clément, Julien Guiomar, Andrée Lachapelle, Stefano Madia, Pietro Tordi; origine: Italia/Francia/Canada; produzione: Dean Film, AMLF, Société Les Film Prospect; durata 105′
Conflitto generazionale tra Stefano Madia e Vittorio Gassman, padre modello passato con ben troppa disinvoltura dalla resistenza al capitalismo industriale. Risi inocula il dramma nell’alveo ottundente della commedia all’italiana, e proprio per questo il suo film colpisce con una forza imprevista e risulta ancor oggi cinico e sorprendente. «Un ennesimo, quattordicesimo, per la verità, film di Dino Risi, con cui andiamo sempre più in là nel distacco dalla commedia all’italiana che usava dieci anni fa, per affrontare temi anche importanti, come questo, un rapporto generazionale e difficile tra un padre e un figlio, tema a me carissimo in cinema e in teatro, e nella vita, svolto con molta solidità, un bel copione di Zapponi» (Gassman).
 
venerdì 19
ore 17.00
L’ingorgo (1979)
Regia: Luigi Comencini; soggetto: L. Comencini; sceneggiatura: L. Comencini, Ruggero Maccari, Bernardino Zapponi; fotografia: Ennio Guarnieri; scenografia: Mario Chiari; costumi: Paola Comencini; musica: Fiorenzo Carpi; montaggio: Nino Baragli; interpreti: Alberto Sordi, Annie Girardot, Fernando Rey, Patrick Dewaere, Marcello Mastroianni, Ugo Tognazzi; origine: Italia/Francia/Germania/Spagna; produzione: Clesi Cinematografica, Greenwich Productions, José Frade Producciones, Albatros Film; durata: 126′
«Ci sono delle automobili in una Roma che sembra impazzita. Tutte le strade sono intasate e le automobili confluiscono in un punto dove c’è un blocco totale. E non possono più muoversi. A bordo, i passeggeri passano presto dall’attesa all’esasperazione e poi all’angoscia. Fino ai limiti della pazzia. Incapaci di fare qualcosa, incapaci di aiutarsi gli uni con gli altri. Chiusi, anzi, in un caparbio rifiuto di ragionare su quello che sta accadendo e di trovarvi un rimedio. Aspettano. Ciechi e sordi. E alla fine moriranno. Perché quell’ingorgo diventerà una tomba per tutti. Ecco, ho pensato che oggi tutti quelli che vanno in automobile non si incontrano mai, non si conoscono, ciascuno preso dai propri problemi e totalmente incapace di pensare a quelli degli altri. Un nuovo tipo di incomunicabilità, se vuoi, di natura quasi tecnica» (Comencini).
 
ore 19.15
Cadaveri eccellenti (1976)
Regia: Francesco Rosi; soggetto: dal romanzo di Leonardo Sciascia Il contesto; sceneggiatura: Tonino Guerra, Lino Iannuzzi, F. Rosi; fotografia: Pasqualino De Santis; scenografia: Andrea Crisanti; costumi: Enrico Sabatini; musica: Astor Piazzolla, Piero Piccioni; montaggio: Ruggero Mastroianni; interpreti: Lino Ventura, Renato Salvatori, Max Von Sydow, Alain Cuny, Fernando Rey, Paolo Bonacelli; origine: Italia/Francia; produzione: PEA; durata: 120′
«I “cadaveri eccellenti” (ottimo titolo!) sono i cadaveri delle “eccellenze”, dei magistrati: uno, due, tre, poi un quarto, e poi altri ancora. Il film, di Francesco Rosi, vi inciampa fin dalle prime pagine, in modo prepotente, aggressivo. Lo schema, seguito con intelligente fedeltà, è dato da un felice romanzo di Leonardo Sciascia, Il contesto, ambientato in un “paese immaginario” che poteva anche far “pensare all’Italia” e definito dal suo autore: “un apologo sul potere nel mondo, sul potere che sempre più degrada nell’impenetrabile forma di una concatenazione che approssimativamente possiamo dire mafiosa. […] Come, Francesco Rosi, ha rappresentato il “suo” apologo? In linea con quello di Sciascia per quello che riguarda la duplice articolazione politica e thriller, sostituendo però sempre più, quanto a climi, le note ironiche (o parodistiche) con quelle drammatiche e, quanto a scrittura, quanto a tecniche, rinunciando alle secchezze e alle arsure della lingua di Sciascia in favore di uno stile impetuoso, dovizioso, quasi barocco in cui il dato realistico si sublima in turgori figurativi ora riferiti espressamente all’imagerie popolare del Sud, ora assimilabili alle visualizzazioni dei sogni, degli incubi, quasi a puntualizzare, nella faccia e tra le pieghe della cronaca, le cifre emblematiche, le allusioni in filigrana, i riferimenti solo in parte sottaciuti» (Rondi).
 
ore 21.30
Confessione di un commissario di polizia al Procuratore della Repubblica (1971)
Regia: Damiano Damiani; soggetto: D. Damiani, Fulvio Gicca Palli; sceneggiatura: D. Damiani, Salvatore Laurani; fotografia: Claudio Ragona; scenografia e costumi: Umberto Turco; musica: Riz Ortolani; montaggio: Antonio Siciliano; interpreti: Franco Nero, Martin Balsam, Marilù Tolo, Claudio Gora, Arturo Dominici, Michele Gammino; origine: Italia; produzione: Euro International Film, Explorer Film ’58; durata: 102′
Un commissario deciso a farsi giustizia da sé si scontra con un procuratore rispettoso alla lettera della legge… «Da gran tempo il cinema ci ha abituati a questi “gialli” sostanzialmente cosmopoliti, dove i dati caratteristici del costume locale e della psicologia sono assorbiti nel meccanismo dell’intreccio e dei colpi di scena. La Confessione di Damiani conferma in questo senso l’estrema difficoltà di un film sulla mafia che sappia scrollarsi di dosso i due convenzionalismi del cinema sui gangsters e del cinema folkloristico. Se tuttavia l’opera si distingue da molte altre consimili venuteci soprattutto da oltreoceano è per l’idea contenuta nel personaggio Bonavia, parente stretto del cittadino al di sopra di ogni sospetto di Petri. […] Attraverso il caso Bonavia, raccontato con uno stile serrato e fluido e momenti agghiaccianti, il film raggiunge quindi pregevoli esiti civili, che compensano l’artificiosità della struttura e di certi comportamenti» (Grazzini).

 

domenica 21
ore 17.00
La viaccia (1961)
Regia: Mauro Bolognini; soggetto: dal romanzo L’eredità di Mario Pratesi; sceneggiatura: Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, Vasco Pratolini; fotografia: Leonida Barboni; scenografia: Flavio Mogherini; costumi: Bice Brichetto; musica: Piero Piccioni; montaggio: Nino Baragli; interpreti: Jean-Paul Belmondo, Claudia Cardinale, Pietro Germi, Romolo Valli, Paul Frankeur, Gabriella Pallotta; origine: Italia/Francia; produzione: Arco Film, Galatea, Titanus, Societé Generale Cinematografique; durata: 103′
Amerigo, figlio di poveri contadini, è mandato dalla famiglia a lavorare da uno zio vinaio. A Firenze Amerigo conosce Bianca, una ragazza che lavora in una casa chiusa, e se ne innamora. Ruba dei soldi allo zio e viene rispedito dai genitori, ma dopo un litigio con il padre torna a Firenze e va a lavorare come attendente nella casa chiusa. La tragedia è dietro l’angolo. «Bolognini […] ha ritrovato – con più maturata esperienza – il vigore, l’estro e la sapienza con cui aveva tanto felicemente esordito anni fa, riuscendo a trovare il giusto punto di incontro fra un’ispirazione decisamente letteraria, colta e figurativamente preziosa e una tematica di dura ed asciutta derivazione realista» (Rondi).
 
ore 19.00
Morte a Venezia (1971)
Regia: Luchino Visconti; soggetto: dal romanzo Der Tod in Venedig di Thomas Mann; sceneggiatura: L. Visconti, Nicola Badalucco; fotografia: Pasqualino De Santis; scenografia: Ferdinando Scarfiotti; costumi: Piero Tosi; musica: Franco Mannino; montaggio: Ruggero Mastroianni; interpreti: Dirk Bogarde, Silvana Mangano, Björn Andresen, Mark Burns, Romolo Valli, Nora Ricci; origine: Italia; produzione: Alfa Cinematografica; durata: 130′
«Aschenbach, nel racconto uno scrittore, nel film un musicista (per raccogliere la probabile ipotesi che Mann si sia ispirato a Mahler), […] lascia la Germania, dove qualche malore si è accompagnato all’insuccesso professionale, e viene a trascorrere una vacanza di riposo al Lido di Venezia. Nell’albergo di lusso in cui alloggia incontra Tadzio, un luminoso ed enigmatico giovinetto polacco, il maggiore di quattro fratelli, che gli turba i sensi e gli commuove la fantasia. Simbolo vivente della misura classica che Aschenbach ha perseguito con la propria opera e non è riuscito a conseguire, Tadzio diviene ben presto una ossessione» (Grazzini). Un mito raccontato trasversalmente da varie arti e in molteplici forme, il romanzo di Thomas Mann racchiude una moltitudine di chiavi di lettura che ci parlano di bellezza, passione amorosa, contemplazione, solitudine, sfumature sottili dell’animo umano. Nello splendido film di Luchino Visconti, lo straordinario temperamento dei protagonisti di questa vicenda, sullo sfondo di una città dall’aria allo stesso tempo algida e ricca di passione, restituisce con una pienezza di senso fuori dal comune i travagli fisici e metafisici che contendono l’animo umano eternamente in bilico tra l’istinto e il raziocinio.
 
ore 21.30
Romeo e Giulietta (1968)
Regia: Franco Zeffirelli; soggetto: dall’omonima tragedia di William Shakespeare; sceneggiatura: Franco Brusati, Masolino D’Amico, F. Zeffirelli; fotografia: Pasqualino De Santis; scenografia: Luciano Puccini; costumi: Danilo Donati; musica: Nino Rota; montaggio: Reginald Mills; interpreti: Leonard Whiting, Olivia Hussey, Milo O’Shea, Michael York, Pat Heywood, John McEnery; origine: Italia/Gran Bretagna; produzione: Verona Produzione, Dino De Laurentiis Cinematografica, B.H.E., F. Zeffirelli Production; durata: 139′
«Zeffirelli ha puntato sulla cifra realistica della tragedia, proponendoci l’amore di Romeo e Giulietta e le fazioni veronesi che lo avviano a conclusioni fatali in un clima che ricorda da vicino quello délla gioventù beat di oggi, evitando perciò ogni romanticismo, ma dando egualmente spazio ai sentimenti dei due giovani innamorati, messi dolorosamente in contrasto, loro così teneri e fragili, con la rissosa e spietata durezza dell’ambiente che li circonda. […] Tra i meriti, i corposi e concreti costumi di Danilo Donati, l’ispirata, dolce, ma anche severa musica di Nino Rota, la splendida fumosa e nebbiosa fotografia ora realistica, ora pittorica di Pasquale De Santis» (Rondi).
 

 

 

Date di programmazione