“Dal 28 novembre al 5 dicembre al cinema Trevi “Pupi Avati, un poeta fuori dal coro”, retrospettiva omaggio al grande regista, sceneggiatore, produttore e scrittore italiano.”
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«Sono particolarmente felice quest'anno di poter dedicare la XV edizione del Roma Film Festival a Pupi Avati per la pluriennale amicizia che mi lega a lui e a suo fratello Antonio, parte integrante della premiata "ditta" di famiglia Duea.
Pupi è un amico prezioso che conosco e stimo da sempre, è un autore poliedrico e anomalo nel panorama del cinema Italiano che mi sono permesso di definire "un poeta fuori dal coro", non solo per il suo inconfondibile tratto narrativo, ma anche per la sua totale autonomia che lo ha reso libero di operare sempre le sue scelte artistiche e produttive al di fuori dalle mode e dalle tendenze commerciali del momento.Pupi è un autore che nel libro d'oro del Grande Cinema Italiano occupa indubbiamente un posto di spicco, un posto di preminenza assoluta, conquistato con il suo infaticabile lavoro e con la sua personalità tanto forte quanto discreta in quarant'anni di carriera che lo hanno visto, anno dopo anno, sfornare un nuovo film sempre stimolante, sempre affascinante, sempre diverso dai precedenti. Lui ha in sé tre figure professionali presenti nel cinema: quella dello scrittore/sceneggiatore, quella del regista e, non ultima, quella del musicista, mancato come dice sempre, che gli permettono di muoversi in modo ampio e completo nell'approccio con una nuova storia da raccontare. La sua è una cinematografia complessa, mai uguale a se stessa perché spazia da racconti intimisti e a volte autobiografici a storie fantastiche, dall'horror al film in costume dal musical alle commedie agrodolci, cambiando di volta in volta i registri musicali come quando si suona uno strumento.
Nel curare questo libro, cercando di fare tesoro di tutti quelli usciti in questi anni, ho tentato di mettere insieme appunti, ricordi, aneddoti, documenti inediti che Pupi mi ha affettuosamente fornito, come in un grande puzzle formato da tante tessere che potessero fornire al lettore un ulteriore ritratto di un autore così infaticabile e sorprendente come lui. Su di lui hanno scritto in tanti, direi tutti i grandi critici, saggisti, giornalisti di cinema da sempre, io vorrei riportare un brano di un intervento di un grande giornalista scomparso, sempre vivo in tutti noi, Tullio Kezich che mi ha colpito particolarmente, apparso nel bel catalogo su Pupi Avati che l'amico Franco Mariotti ha pubblicato alcuni anni fa in occasione della XXVII edizione di Primo Piano sull'autore. "Avati si riserva la facoltà di presentare eroi e antieroi vivi e concreti nelle forme dello spettacolo più popolare del secolo, dove le finezze, le ambiguità e le mezze tinte devono apparire chiare ed evidenti a ogni tipo di pubblico. Ma non è il solo divertimento che si concede. Un'altra sua caratteristica è quella di spaziare da un genere all'altro, travalicando tutte le barriere, tant'è vero che non si può mai prevedere se il suo prossimo film sarà una commedia intimista o un horror. Sappiamo solo che questo appuntamento fisso, anno dopo anno, possiamo aspettarlo con fiducia; e che Pupi e Antonio si sono organizzati per esserci sempre a dispetto delle crisi e delle incognite di mercato. Vien da pensare che se tutto il cinema italiano si fosse mosso con analoghi criteri (libertà più sobrietà, fantasia più pragmatismo) la sua storia nell'ultimo mezzo secolo sarebbe stata meno accidentata e molto più gratificante per noi che ancora sediamo in platea".
Pupi è un amico prezioso che conosco e stimo da sempre, è un autore poliedrico e anomalo nel panorama del cinema Italiano che mi sono permesso di definire "un poeta fuori dal coro", non solo per il suo inconfondibile tratto narrativo, ma anche per la sua totale autonomia che lo ha reso libero di operare sempre le sue scelte artistiche e produttive al di fuori dalle mode e dalle tendenze commerciali del momento.Pupi è un autore che nel libro d'oro del Grande Cinema Italiano occupa indubbiamente un posto di spicco, un posto di preminenza assoluta, conquistato con il suo infaticabile lavoro e con la sua personalità tanto forte quanto discreta in quarant'anni di carriera che lo hanno visto, anno dopo anno, sfornare un nuovo film sempre stimolante, sempre affascinante, sempre diverso dai precedenti. Lui ha in sé tre figure professionali presenti nel cinema: quella dello scrittore/sceneggiatore, quella del regista e, non ultima, quella del musicista, mancato come dice sempre, che gli permettono di muoversi in modo ampio e completo nell'approccio con una nuova storia da raccontare. La sua è una cinematografia complessa, mai uguale a se stessa perché spazia da racconti intimisti e a volte autobiografici a storie fantastiche, dall'horror al film in costume dal musical alle commedie agrodolci, cambiando di volta in volta i registri musicali come quando si suona uno strumento.
Nel curare questo libro, cercando di fare tesoro di tutti quelli usciti in questi anni, ho tentato di mettere insieme appunti, ricordi, aneddoti, documenti inediti che Pupi mi ha affettuosamente fornito, come in un grande puzzle formato da tante tessere che potessero fornire al lettore un ulteriore ritratto di un autore così infaticabile e sorprendente come lui. Su di lui hanno scritto in tanti, direi tutti i grandi critici, saggisti, giornalisti di cinema da sempre, io vorrei riportare un brano di un intervento di un grande giornalista scomparso, sempre vivo in tutti noi, Tullio Kezich che mi ha colpito particolarmente, apparso nel bel catalogo su Pupi Avati che l'amico Franco Mariotti ha pubblicato alcuni anni fa in occasione della XXVII edizione di Primo Piano sull'autore. "Avati si riserva la facoltà di presentare eroi e antieroi vivi e concreti nelle forme dello spettacolo più popolare del secolo, dove le finezze, le ambiguità e le mezze tinte devono apparire chiare ed evidenti a ogni tipo di pubblico. Ma non è il solo divertimento che si concede. Un'altra sua caratteristica è quella di spaziare da un genere all'altro, travalicando tutte le barriere, tant'è vero che non si può mai prevedere se il suo prossimo film sarà una commedia intimista o un horror. Sappiamo solo che questo appuntamento fisso, anno dopo anno, possiamo aspettarlo con fiducia; e che Pupi e Antonio si sono organizzati per esserci sempre a dispetto delle crisi e delle incognite di mercato. Vien da pensare che se tutto il cinema italiano si fosse mosso con analoghi criteri (libertà più sobrietà, fantasia più pragmatismo) la sua storia nell'ultimo mezzo secolo sarebbe stata meno accidentata e molto più gratificante per noi che ancora sediamo in platea".
Questo omaggio è stato possibile grazie all'affetto ed alla sincera amicizia di tutti coloro che ho interpellato e che hanno dimostrato, sia per Pupi che per Antonio, un sentimento sincero derivato dall'approccio schietto e diretto che i due fratelli hanno sempre riservato a tutti, non solo agli attori ma anche a tutto lo staff dei loro film.
Desidero ringraziare per il sostegno dato al Roma Film Festival la Direzione Cinema del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, l'Assessorato alla Cultura Arte e Sport della Regione Lazio, il Centro Sperimentale di Cinematografia, il Teatro Sistina, la Medusa, la Zero Uno.
Spero di essere riuscito ad inserire nella variegata e complessa opera di Pupi un'altra tessera di un mosaico in continua evoluzione con un autore come lui che non finisce mai di sorprenderci ed affascinarci».
(Introduzione di Adriano Pintaldi, Presidente del Roma Film Festival, curatore del volume Pupi Avati, un autore fuori dal coro, Roma Film Festival, 2010)
Le dichiarazioni contenute nelle schede sono tratte dai seguenti volumi: Antonello Sarno, Pupi Avati, Il Castoro Cinema, 1993; Antonio Maraldi (a cura di), Il cinema di Pupi Avati, Centro Cinema Città di Cesena, Società Editrice «Il Ponte Vecchio», Cesena, 2003; Simone Isola (a cura di), Pupi Avati, Sovera Editore, Roma, 2007; Ruggero Adamovit, Claudio Bartolini, Il gotico padano. Dialogo con Pupi Avati, Le Mani, Rocco-Genova, 2010.
domenica 28
ore 17.00
La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone (1975)
Regia: Pupi Avati; soggetto: P. Avati, Antonio Avati; sceneggiatura: P. Avati, A. Avati, Gianni Cavina; fotografia: Luigi Kuveiller; scenografia e costumi: Fiorenzo Senese; musica: Amedeo Tommasi; montaggio: Ruggero Mastroianni; interpreti: Ugo Tognazzi, Paolo Villaggio, Delia Boccardo, Lucio Dalla, Patrizia De Clara, Gianni Cavina; origine: Italia; produzione: Euro International Films; durata: 107'
«Tornato al paese romagnolo nativo con fama di eretico burlone, il barone Anteo Pellicani, detto Gambina Maledetta, zoppo per la caduta da un fico miracoloso, s'impegna a combattere contro il mondo della sua infanzia. Pur con scompensi di costruzione è, in bilico tra il grottesco e il fantastico, un film bizzarro, insolito, originale. Una bella galleria di maschere ripugnanti» (Morandini). «Avevo scritto questo copione per Gigi Proietti che mi aveva entusiasmato nello sceneggiato televisivo Il circolo Pickwick […]. Io avevo scritto questa Mazurka pensando ad un barone istrionesco, un po' gassmaniano, molto adatto a Proietti. […] Bertolucci [Giovanni], emiliano anche lui, aveva accettato di leggere il copione e gli era piaciuto. Però mi disse: "Forse il film riesco a fartelo fare, a patto che tu però anziché Proietti pensi ad un attore di maggior richiamo". Erano quelli i giorni dell'esplosione televisiva di Paolo Villaggio […]. Cercai Villaggio e gli proposi il film. Villaggio vide il mio Balsamus, lesse il copione ed accettò. Poi ci furono diverse disavventure che durarono circa 6 - 7 mesi, durante i quali Villaggio scomparve dalla mia vita, travolto da altri impegni e dal successo. […] Poi una sera, rientrato a casa, mia moglie mi disse che aveva chiamato Tognazzi da Parigi e che avrei dovuto richiamarlo. Formai il numero e mi rispose Tognazzi che mi chiese se avessi scritto io quel copione perché gli interessava la parte. Al suo ritorno da Parigi incontrai Tognazzi e ci accordammo sulla cosa. […] Era successo che sua moglie anziché mettere nella valigia un copione di Bevilacqua, aveva messo il mio. E così è nato il film, in maniera quasi miracolistica. Tognazzi accettò di fare il film totalmente in partecipazione, senza pretendere nessun cachet, e veniva da un campione d'incassi come Romanzo popolare di Monicelli. Villaggio venne poi a sapere la cosa, cambiò completamente atteggiamento e si inserì in un ruolo subalterno» (Avati).
ore 19.00
Tutti defunti… tranne i morti (1977)
Regia: Pupi Avati; soggetto e sceneggiatura: P. Avati, Antonio Avati, Gianni Cavina, Maurizio Costanzo; fotografia: Pasquale Rachini; scenografia e costumi: Luciana Morosetti; musica: Amedeo Tommasi; montaggio: Maurizio Tedesco; interpreti: Gianni Cavina, Francesca Marciano, Carlo Delle Piane, Greta Vajant, Michele Mirabella, Andrea Matteuzzi; origine: Italia; produzione: A.M.A. Film; durata: 104'
«Siamo in Emilia, nel 1950. Dante, un piazzista di libri, sta girando per le case di campagna nel tentativo di vendere un libro contenente la dettagliata storia di tutte le più antiche e nobili famiglie emiliano-romagnole. Il libro è ricavato da un vecchio manoscritto e a proposito di una famiglia, quella dei marchesi Zanetti, una delle leggende contenute nel testo indica l'esistenza di un tesoro maledetto. Per ritrovarlo, stando a quanto è scritto, bisogna uccidere nove componenti della nobile famiglia: le iniziali dei nomi delle vittime formeranno la parola che indicherà il luogo dove giace il prezioso tesoro. […] Anche in questo caso l'incasso non è particolarmente esaltante […], ma la critica nota finalmente in Avati il formarsi di una cifra stilistica immune dai soliti temi frequentati dagli "autori" del tempo. […] A Tutti i defunti… tranne i morti, uno dei critici [e sceneggiatore] di punta di allora, Bernardino Zapponi […] dedicherà una lunghissima recensione addirittura su "L'Espresso" paragonando Avati nientemeno che al suo "folle" conterraneo Augusto Tretti, […] e considerato un maestro, forse l'unico, del cinema naïf italiano. "Tutti i defunti… tranne i morti - scrive - è un film che non appartiene a nessuna categoria; non è affatto impegnato né ha pretese d'altro genere. Questo dà una grande soddisfazione allo spettatore. Si può ridere e inorridire liberamente; ci si diverte e si gode del mero spasso delle situazioni e delle battute; per un paio d'ore, viviamo nell'allucinata gioia di un mondo di pazzi raccontato da un pazzo, che è soddisfazione purtroppo sempre più rara» (Sarno). «La ragione per cui io realizzai Tutti defunti… tranne i morti fu quello di scappare da un cliché, di fuggire, come ho sempre fatto, dall'etichetta, dal momento che, dopo La casa dalle finestre che ridono, mi avevano già definito il "Polanski emiliano"» (Avati).
ore 21.00
La casa dalle finestre che ridono (1976)
Regia: Pupi Avati; soggetto e sceneggiatura: Antonio Avati, P. Avati, Gianni Cavina, Maurizio Costanzo; fotografia: Pasquale Rachini; scenografia e costumi: Luciana Morosetti; musica: Amedeo Tommasi; montaggio: Giuseppe Baghdighian; interpreti: Lino Capolicchio, Francesca Marciano, Gianni Cavina, Giulio Pizzirani, Bob Tonelli; origine: Italia; produzione: A.M.A. Film; durata: 112'
«Stefano, restauratore professionista di opere d'arte, si reca a Comacchio su invito dell'amico Antonio Mazza per lavorare al recupero dell'affresco contenuto nella chiesa del paese e raffigurante il martirio di San Sebastiano. Il dipinto, in gran parte invisibile per gli inevitabili segni del tempo, è opera di Buono Legnani, pittore di agonie morto suicida anni prima, corroso dalla propria follia. Egli usava ritrarre soggetti in punto di morte, per fissare il momento del decesso e trarne godimento. Stefano, giunto in paese, entra in contatto con una comunità chiusa, ostile e piena di segreti inconfessabili e atroci. […] Opera di culto, riconosciuta dalla critica come autentica perla del cinema di genere» (Adamavit e Bartolini). «In La casa dalle finestre che ridono ho cercato di spaventare attraverso la solarità, andando così contro gli stereotipi del genere, per avere un elemento innovativo all'interno del genere stesso, che prevede e suppone immagini standard, dove il buio è re. Invece nel mio film ho mostrato che anche gli spazi aperti, bruciati dal sole, possono e riescono a essere altrettanto spaventosi» (Avati).
lunedì 29
chiuso
martedì 30
ore 17.00
Zeder (1983)
Regia: Pupi Avati; soggetto: P. Avati; sceneggiatura: P. Avati, Maurizio Costanzo, Antonio Avati; fotografia: Franco Delli Colli; scenografia: Giancarlo Basili, Leonardo Scarpa; costumi: Steno Tonelli; musica: Riz Ortolani; montaggio: Amedeo Salfa; interpreti: Gabriele Lavia, Anne Canovas, Paola Tanziani, Cesare Barbetti, Bob Tonelli, Ferdinando Orlandi; origine: Italia; produzione: A.M.A. Film, Rai; durata: 100'
«Stefano vive a Bologna e scrive romanzi. In occasione del suo compleanno, Alessandra (la sua compagna) gli regala una macchina per scrivere di seconda mano, per iniziare la stesura del suo nuovo lavoro. La notte stessa, però, il nastro si inceppa e Stefano vi scopre misteriose frasi impresse dal precedente proprietario, che annunciano la scoperta del segreto per il ritorno dall'aldilà. Attratto dal mistero, l'uomo incomincia a indagare su ciò che si nasconde dietro quelle poche parole, opera del defunto Paolo Zeder, ex prete ripudiato dalla chiesa a causa delle sue ricerche esoteriche» (Adamovit e Bartolini). «L'idea iniziale del film non è frutto della fantasia ma di una situazione di vita. Il mio compositore abituale di allora, Amedeo Tommasi, propose di vendermi una macchina da scrivere elettrica. Io l'acquistai - era enorme - e la portai a casa. Incuriosito la provai molto e mi resi conto che il nastro del meccanismo di scrittura veniva inciso, e tutto ciò che veniva battuto poteva essere riletto. Quando il nastro si esaurì e dovetti cambiarlo, andai a rileggermi la parte del nastro che non avevo inciso io, scoprendo di chi era stata questa macchina e il suo percorso. […] Ho ambientato La casa dalle finestre che ridono nella bonaria pianura padana; la stessa operazione con Zeder, sfruttando l'aspetto rassicurante della riviera romagnola, i tipici luoghi delle vacenze. Proprio la visione inquietante di questi luoghi insospettabili rende secondo me questi film particolarmente inquietanti. Pensa che la colonia di Spina, che in Zeder è il terreno K da cui resuscitano i cadaveri, dopo tanti anni è ancora lì, non l'hanno demolita né ristrutturata. Ci sono passato quest'anno, ed è una cosa agghiacciante» (Avati).
ore 19.00
Noi tre (1984)
Regia: Pupi Avati; soggetto e sceneggiatura: P. Avati, Antonio Avati; fotografia: Pasquale Rachini; scenografia: Giancarlo Basili, Leonardo Scarpa; costumi: Alberto Spiazzi; musica: Riz Ortolani; montaggio: Amedeo Salfa; interpreti: Christopher Davidson, Lino Capolicchio, Gianni Cavina, Carlo Delle Piane, Ida Di Benedetto, Dario Parisini; origine: Italia; produzione: Duea Film, Istituto Luce - Italnoleggio Cinematografico, Rai; durata: 89'
«Mozart si può raccontare in più modi. Amadeus di Milos Forman ha un'impostazione completamente diversa dalla mia, una messa in scena hollywoodiana, sontuosa. In quell'ottica è difficile mostrare Mozart, come ho fatto io, come un ragazzo non molto sveglio, quasi un ebete… Con il film biografico si corre sempre qualche rischio. […] Volevo girare un film mozartiano cercando innanzitutto di avere una legittimazione a raccontare quella storia. Ho colto un frammento della sua esistenza, l'errore di Mozart all'esame dell'Accademia dei Filarmonici, cercando di indagarlo in modo piacevole, attraverso ricerche approfondite, sino a farlo diventare un giallo. Come può un genio cadere in una svista così banale? L'interpretazione che ho dato, e di cui vado molto orgoglioso, è che Mozart scelga di sbagliare per sfuggire al destino di diventare Mozart, agisce contro il suo stesso talento. Ha capito che la genialità, attraverso il modello dello zio matto […], porta ad essere tagliati fuori da quella quotidianità che lui aveva vissuto per la prima volta con altri coetanei» (Avati).
ore 20.30
Incontro moderato da Adriano Pintaldi con Pupi Avati e Marcello Foti
a seguire
Pupi Avati, un poeta fuori dal coro (2010)
A cura di Adriano Pintaldi; riprese: Fulvio Greco; montaggio: Roberto Di Tanna; origine: Italia; produzione: Roma Film Festival, con il patrocinio del Ministero per i Beni e le Attività Culturali - Direzione Cinema, Regione Lazio - Assessorato alla Cultura, Arte e Sport, in collaborazione con Medusa, 01 Distribution, Centro Sperimentale di Cinematografia -Cineteca Nazionale; durata: 50'
Il documentario ripercorre la carriera cinematografica di Pupi Avati
con una serie di interventi di attori, collaboratori e amici che hanno
lavorato con lui in questi quaranta anni. Si apre con un'affettuosa dedica del fratello Antonio, parte integrante della "premiata forneria Avati"; prosegue con i ricordi di Lucio Dalla che Pupi Avati, promettente jazzista, avrebbe voluto ammazzare per invidia professionale; con le nostalgie di Maurizio Costanzo, sceneggiatore di alcuni film di Avati, che rimpiange i bei momenti passati lavorando insieme; con la divertente dichiarazione di Neri Marcorè che, imitando perfettamente la voce del regista, gli fa degli affettuosi rimproveri; con gli aneddoti e i ricordi degli storici attori avatiani, come Gianni Cavina e Carlo Delle Piane; fino ad arrivare a Ezio Greggio che conclude il suo intervento in maniera irresistibile…
con una serie di interventi di attori, collaboratori e amici che hanno
lavorato con lui in questi quaranta anni. Si apre con un'affettuosa dedica del fratello Antonio, parte integrante della "premiata forneria Avati"; prosegue con i ricordi di Lucio Dalla che Pupi Avati, promettente jazzista, avrebbe voluto ammazzare per invidia professionale; con le nostalgie di Maurizio Costanzo, sceneggiatore di alcuni film di Avati, che rimpiange i bei momenti passati lavorando insieme; con la divertente dichiarazione di Neri Marcorè che, imitando perfettamente la voce del regista, gli fa degli affettuosi rimproveri; con gli aneddoti e i ricordi degli storici attori avatiani, come Gianni Cavina e Carlo Delle Piane; fino ad arrivare a Ezio Greggio che conclude il suo intervento in maniera irresistibile…
Ingresso gratuito
a seguire
Una gita scolastica (1983)
Regia: Pupi Avati; soggetto e sceneggiatura: P. Avati, Antonio Avati; fotografia: Pasquale Rachini; scenografia: Giancarlo Basili, Leonardo Scarpa, Malisa Cecchini; costumi: Steno Tonelli; musica: Riz Ortolani; montaggio: Amedeo Salfa; interpreti: Carlo Delle Piane, Tiziana Pini, Lidia Broccolino, Rossana Casale, Cesare Barbetti, Bob Tonelli; origine: Italia; produzione: A.M.A. Film, Rai; durata: 89'
«Un giorno mi viene a trovare [Roberto Olivieri, capo ufficio stampa della provincia di Bologna, n.d.r.] e mi dice: "Noi vorremmo, con un film a soggetto, esaltare in qualche modo l'Appennino bolognese. Non è che tu hai un'idea?". Allora mi viene in mente la storia del viaggio premio che mia zia Laura fece nel 1914 in terza liceo con la sua classe. Era un racconto che avevamo molto ascoltato da bambini. La zia ci aveva anche un po' ossessionato con questa camminata sui colli. Propongo la cosa ai responsabili della provincia che, anche se si aspettavano qualcosa di molto diverso, decidono ugualmente di entrare nella faccenda, pur non in maniera sostanziale […]. C'è un mio punto di vista sulla storia che è l'io narrante (la voce fuori campo maschile) e c'è anche una voce femminile (quella di Laura) che racconta in prima persona questa sua esperienza. Questo mi ha permesso di abbandonare sulle sue fragili spalle le spudoratezze sentimentali che il film propone. Che, d'altra parte, viste e proposte in prima persona da me avrebbero avuto poco senso. Questa storia del 1914 ho cercato di renderla con quella esagerazione con la quale mia zia la raccontava. Mia zia Laura ha speso gli ultimi anni della sua vita con la preoccupazione che noi la immaginassimo infelice. Non so bene perché. Forse perché non era una bella donna, forse perché non aveva avuta una vita straordinaria. E allora si agganciava spesso a quei tre giorni di cui conservava documenti eccezionali. Aveva ancora le stupende fotografie su lastra, alle quali mi sono ispirato per cercare di ricostruire le atmosfere. Quella camminata l'ho raccontata come avrebbe fatto lei» (Avati).
Ingresso gratuito
mercoledì 1
ore 17.30
Impiegati (1985)
Regia: Pupi Avati; soggetto: P. Avati, Antonio Avati; sceneggiatura: P. Avati, Cesare Bornazzini, A. Avati; fotografia: Pasquale Rachini; scenografia: Giancarlo Basili, Leonardo Scarpa; costumi: Steno Tonelli; musica: Riz Ortolani; montaggio: Amedeo Salfa; interpreti: Claudio Botosso, Giovanna Maldotti, Dario Parisini, Elena Sofia Ricci, Consuelo Ferrara, Luca Barbareschi; origine: Italia; produzione: Dania Film, Duea Film, Filmes International, National Cinematografica; durata: 99'
«Luigi, neolaureato modenese, si trasferisce a Bologna perché assunto da un importante istituto bancario, lo stesso nel quale ha lavorato il padre. La casa in cui va ad abitare la divide con Dario, giovane studente del Dams, figlio di un amico di famiglia. L'ambiente di lavoro non è dei più accoglienti. Luigi si accorge presto della divisione esistente tra i colleghi: da una parte c'è il gruppo degli anonimi, dall'altra quelle degli arrivisti che sembra far capo ad Enrico, con una propria attività mondana e circoli esclusivi» (Maraldi). «Cercavo […] di dare un aspetto eroico a queste figure, buone per le copertine di "Capital", ad esempio, per le riviste che leggevano tutti i bancari. Questo modo di riprenderli dal basso, alla John Ford, ne faceva delle figure svettanti, in contrasto con quello che era lo squallido contesto nel quale si muovevano. Mi sembrava l'ufficio un ambiente rappresentativo dell'Italia di quegli anni; avevo voglia di guardare un po' al presente, mettendo per un momento da parte le mie esperienze» (Avati).
ore 19.30
Festa di laurea (1985)
Regia: Pupi Avati; soggetto e sceneggiatura: P. Avati, Antonio Avati; fotografia: Pasquale Rachini; scenografia: Giancarlo Basili, Leonardo Scarpa; costumi: Alberto Spiazzi; musica: Riz Ortolani; montaggio: Amedeo Salfa; interpreti: Carlo Delle Piane, Aurore Clément, Lidia Broccolino, Nick Novecento [Leonardo Sottani], Dario Parisini, Davide Celli; origine: Italia; produzione: Dania Film, Duea Film, Filmes International, National Cinematografica, Rai; durata: 98'
«Una sera mentre ero a casa di alcuni amici ho scoperto nell'ultimo scaffale di una libreria un vecchio proiettore a 16 mm. Accanto c'erano delle piccole bobine. Con un po' di fatica riusciamo a farlo funzionare e cominciamo a vedere un filmino dal titolo Festa di laurea. Era un film di tre minuti con una ragazzina che si laureava, una torta, molte facce sorridenti, un'orchestrina che suonava in giardino, il tutto nella Rimini degli anni '50. Terminata la visione, uno dei presenti ricorda che quello era un episodio divenuto famoso in tutta Bologna, perché la ragazza in realtà non s'era laureata. La menzogna che il film nascondeva, il piccolo giallo sulla laurea che non era stata presa e che invece era stata venduta come tale mi ha incuriosito a tal punto da farmi riflettere su una certa mentalità di un'Italia del passato e su una borghesia. Quella borghesia che aveva il coraggio o la fierezza di essere antidemocratica, cosa che adesso non ha più. La borghesia è molto più tremenda oggi, solo che si nasconde. Ecco allora che nasce questo racconto sulle classi di un tempo, su questo fornaio e la sua voglia di essere felice e su questa bella donna, fiera e borghese, e soprattutto, sui miei piccoli ricordi. Un piccolo quadernetto di appunti su come siamo andati al mare, su come siamo andati in vacanza e abbiamo provato ingenuamente ad essere felici e forse lo siamo anche molto stati» (Avati).
ore 21.30
Regalo di Natale (1986)
Regia: Pupi Avati; soggetto e sceneggiatura: P. Avati; fotografia: Pasquale Rachini; scenografia: Giuseppe Pirrotta; costumi: Maria Teresa Venturini, Raffaele Curi; musica: Riz Ortolani; montaggio: Amedeo Salfa; interpreti: Carlo Delle Piane, Diego Abatantuono, Gianni Cavina, George Eastman [Luigi Montefiori], Alessandro Haber, Kristina Sevieri; origine: Italia; produzione: D.M.V. Distribuzione, Duea Film,Rai, Sacis; durata: 102'
«La notte di Natale, quattro amici si ritrovano dopo molto tempo per una partita a poker, a cui è stato invitato anche l'avvocato Santelia, un industriale dall'apparenza dimesso e destinato - almeno nel disegno dei quattro - ad essere spennato. A organizzare l'incontro è stato Ugo, un mezzo fallito che sbraca il lunario occupandosi di oggetti d'arte, il quale non ha faticato molto a convincere gli altri a partecipare. Così in una villa dei colli bolognesi si ritrovano attorno a un tavolo anche Franco, proprietario di un cinema a Milano, Stefano che fa gli onori di casa, e Lele che vivacchia scrivendo recensioni cinematografiche per un quotidiano locale» (Maraldi). «Avevo la grandissima necessità di trattare i lati oscuri dell'amicizia, di cui mi ero già occupato in storie diverse, ma sempre molto solari, consolatorie, rassicuranti. Mi mancava uno degli elementi fondanti dell'amicizia e dell'amore: il tradimento. È un passaggio spesso obbligato nella vita, purtroppo. Può rafforzare o distruggere totalmente un rapporto. Io avevo omesso tale aspetto, seppur anche io ho tradito e sono stato tradito. L'ho fatto usando come pretesto una partita di poker, uno di quei contesti maschili, prevalentemente maschili. La partita di poker giocata la notte di Natale è di per sé un'idea già ripugnante. Solo gli esseri umani peggiori sono soli la notte di Natale e si giocano milioni a carte. Non c'è niente di più dissacratorio» (Avati).
giovedì 2
ore 17.00
Ultimo minuto (1987)
Regia: Pupi Avati; soggetto e sceneggiatura: P. Avati, Antonio Avati, Italo Cucci; fotografia: Pasquale Rachini; scenografia: Giuseppe Pirrotta; costumi: Graziella Virgili; musica: Riz Ortolani; montaggio: Amedeo Salfa; interpreti: Ugo Tognazzi, Elena Sofia Ricci, Massimo Bonetti, Diego Abatantuono, Lino Capolicchio, Giovanna Maldotti; origine: Italia; produzione: D.M.V. Distribuzione, Duea Film, Rai; durata: 90'
«Ultimo minuto descrive con maturità e distacco i retroscena del mondo del calcio senza cadere nella ovvia trappola di mostrare il gioco giocato (che infatti non si vede se non, nelle scene finali, in un paio di indispensabili casi: l'azione del gol, ad esempio). Non era facile evitare questi passi falsi, eppure Avati percorre con sicurezza la sua strada delineando da un lato la crisi del protagonista, un uomo di mezza età che, dopo aver dato tutto alla squadra, apre gli occhi e si rende conto che la sua famiglia non c'è più, si è dissolta mentre lui non c'era (sbaglia persino la data di compleanno della figlia) e, dall'altro, il dolore della scoperta che esiste nella vita "un momento in cui si smette di vincere" come lo stesso Ferroni [il nome del protagonista, interpretato da Tognazzi, n.d.r.] ammette in uno dei momenti migliori del film» (Sarno). «Il fenomeno del calcio-scommesse è di qualche anno prima ma le conseguenze sono ancora ben presenti. Tra l'altro era un momento che vedeva da un lato l'ingresso dei grandi tycoon come Berlusconi, con la loro managerialità moderna, e dall'altro il dissolversi di un ambiente per certi versi ancora romantico, in cui la figura del factotum aveva avuto una grande importanza. Mi sembrava che il calcio assomigliasse metaforicamente alla società, e per certi versi anche al cinema, dove c'era ancora chi - ma stava scomparendo - organizzava produzioni ai tavoli dei bar, firmando pacchi di cambiali» (Avati).
ore 19.00
Storia di ragazzi e di ragazze(1989)
Regia: Pupi Avati; soggetto e sceneggiatura: P. Avati; fotografia: Pasquale Rachini; scenografia: Daria Ganassini, Giovanna Zighetti; costumi: Graziella Virgili; musica: Riz Ortolani; montaggio: Amedeo Salfa; interpreti: Lucrezia Lante Della Rovere, Davide Bechini, Felice Andreasi, Massimo Bonetti, Alessandro Haber, Mattia Sbragia; origine: Italia; produzione: Duea Film, Unione Cinematografica, Rai; durata: 99'
«Un lungo pranzo rurale di febbraio celebra il fidanzamento tra una ragazza di campagna divenuta dattilografa e un ragazzo di città, mette a confronto la famiglia contadino-operaia di lei e la famiglia medio borghese di lui con i loro conflitti e segreti. Il film corale di Pupi Avati, interpretato benissimo da "ventisei protagonisti", girato in bianco e nero, ambientato nel 1936 fascista, omaggio al ricordo del fidanzamento dei genitori del regista, diretto con felice maestria, sentimento intenso, delicatezza e umorismo, è davvero bello» (Tornabuoni). «Il fascino della grande tavolata contadina è un archetipo che al cinema ha sempre funzionato. Non ho inventato niente. Mi interessava invece quello che accade intorno a quella tavolata, e che ho cercato di raccontare con una miscela, propria del mio modo di fare cinema, credo, di comico, drammatico e struggente» (Avati).
ore 21.00
Bix (1991)
Regia: Pupi Avati; soggetto e sceneggiatura: P. Avati, A. Avati, Lino Patruno; fotografia: Pasquale Rachini; scenografia: Carlo Simi; costumi: Graziella Virgili, Carla Seinera Bertoni; musica: Bob Wilber; montaggio: Amedeo Salfa; interpreti: Bryant Weeks, Ray Edelstein, Julia Ewing, Emile Levisetti, Sally Groth, Mark Collver; origine: Italia; produzione: Duea Film, Union F.N., con la collaborazione della Rai; durata: 116'
«Per raccontare la leggenda di "Bix", il jazzofilo Pupi Avati ha abbandonato la "sua" Romagna e si è trasferito nei luoghi dove Leon Beiderbecke visse nei primi decenni del secolo. Le scene che raccontano i rapporti tra Bix e la sua borghese famiglia si svolgono proprio nella casa che fu di suo padre; laddove è stato possibile, anche le strade e il locale di ritrovo sono stati ritrovati (o ricostruiti) come allora. Si respira una forte atmosfera di autenticità in questo film, che per struttura narrativa, taglio delle inquadrature (dominano le riprese dal basso), e ritmo narrativo non nasconde, però, mai la propria ambizione di trascendere il tono della biografia naturalisticamente veritiera per attingere al Mito» (A. Viganò). «I due elementi - il sorgere di una passione travolgente e trasgressiva e l'ostacolo di una famiglia con cui non voleva rompere - mi colpirono moltissimo [a 14 anni]. Mi riconoscevo. Mi piaceva tutto quello che non piaceva alla mia famiglia e nello stesso tempo mi piaceva la mia famiglia. E da allora è stato un po' il mio eroe» (Avati).
venerdì 3
ore 17.00
Fratelli e sorelle (1992)
Regia: Pupi Avati; soggetto e sceneggiatura: P. Avati; fotografia: Roberto D'Ettorre Piazzolli; scenografia: Carlo Simi; costumi: Graziella Virgili; musica: Riz Ortolani; montaggio: Amedeo Salfa; interpreti: Anna Bonaiuto, Franco Nero, Paola Quattrini, Lino Capolicchio, Enrica Maria Modugno, Consuelo Ferrara; origine: Italia; produzione: Duea Film, Filmauro, in collaborazione con la Rai; durata: 106'
«Mi piaceva raccontare i rapporti che stanno per scomparire per il calo demografico, quelli tra fratelli e sorelle. Ormai le famiglie si fermano ad un figlio solo. Quindi volevo avvicinare due fratelli italiani e due sorelle "americane". Così ho pensato alla storia di una donna, abbandonata dal marito, che con i due figli raggiunge in America la sorella che vive con un vedovo che ha due figlie» (Avati). «Film inquietante e malinconico, pervaso da un malessere esistenziale straziato, reso magistralmente con sapienti e trepidi suggerimenti, Fratelli e sorelle è non solo un "nuovo" Pupi Avati, ma anche un piccolo capolavoro di sensibilità, di felici momenti estetici, di raffinata eleganza formale. Avati coglie con appropriate intuizioni il malessere di un ambiente (l'America senza lustrini), familiare e sociale; la resa di anime spezzate; la debolezza degli indifesi; la dolenza dei vinti. Ma anche l'ipocrisia, l'egoismo, l'incapacità di capirsi e di salvarsi» (Spiga).
ore 19.00
L'arcano incantatore (1996)
Regia: Pupi Avati; soggetto e sceneggiatura: P. Avati; fotografia: Cesare Bastelli; scenografia: Giuseppe Pirrotta; costumi: Vittoria Guaita; musica: Pino Donaggio; montaggio: Amedeo Salfa; interpreti: Carlo Cecchi, Stefano Dionisi, Andrea Scorzoni, Mario Erpichini, Vittorio Duse, Patrizia Sacchi; origine: Italia; produzione: Filmauro, Duea Film; durata: 96'
«È un film in cui ripropongo il gioco sempre eccitante di spaventarmi e di spaventare. Siamo in un territorio di genere, seppur raffinato. Perché abbiamo a che fare con un ambiente settecentesco, con ricerche parascientifiche nei riguardi della morte. Abbiamo per l'ennesima volta la figura di un prete, che da quando in qualche modo mi avvicino a questo genere è onnipresente. Nella figura del sacerdote vedo un qualcuno che sta a metà tra terra e qualche cosa di diverso, che può essere il cielo ma anche qualcosa di tenebroso. È il detentore di un mistero. E in più c'è uno spazio alla Borges, con quella biblioteca che contiene tutto ciò che è stato scritto sulla morte» (Avati).
ore 20.45
Pupi Avati, ieri oggi domani (2010)
Regia: Claudio Costa; soggetto: C. Costa, basato sull'autobiografia di Pupi Avati Sotto le stelle di un film; animazioni: C. Costa; fotografia: C. Costa; musica: Marco Corsi, Rehno Jazz Gang; montaggio: Francesca Romana Brogani, C. Costa; origine: Italia; produzione: Renata De Paulis, F.R. Brogani, Ciro Toto, C. Costa per Olivud, Ronin Film Production, Jazz Entertainment; durata: 64'
Quando è adolescente Pupi Avati sogna di diventare un grande musicista jazz.
Inizia la sua carriera come clarinettista vincendo i tentativi di boicottaggio
da parte dei dirigenti degli scout di Bologna, di cui fa parte. Gli viene chiesto di scegliere «o gli scout o il jazz». Lui sceglie il jazz. Ma nella band arriva un giovane clarinettista troppo bravo per essere secondo a qualcuno. Si chiama Lucio Dalla. Pupi tenta di ucciderlo spingendolo giù dalla Sagrada Famiglia in Spagna… Non riuscendo nel tentativo, ripone il clarinetto nell'astuccio e dopo aver visto 8½ di Fellini si dedica al cinema, dirigendo, con i soldi di un mecenate presentatogli da un nano, due film che saranno dei disastri al botteghino. Disperato finisce a lavorare per la Findus e per 4 anni si dedica alle sogliole limanda. Ma in quei anni recluta giovani pronti a lavorare di nuovo in un suo film, possibilmente gratis, e continua a cercare un produttore. Il destino lo aiuta quando Pupi lascia una sceneggiatura a Paolo Villaggio, che la dimentica in casa di Ugo Tognazzi. Tognazzi la legge e chiama Pupi dicendogli che vuol fare il film. Pupi da disoccupato (perché nel frattempo ha lasciato la Findus) si ritrova a dirigere Ugo Tognazzi che all'epoca, 1975, è l'attore più pagato d'Italia, nel film La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone. Da allora Pupi e il fratello Antonio hanno prodotto oltre 40 film, con una media di un film all'anno, hanno scoperto attori, ne hanno salvati altri, hanno
avuto successi, vinto premi, ottenuto celebrità… eppure Pupi Avati guarda ai "tempi duri" con nostalgia, e nota che la vita è troppo breve per arrivare preparati alla fine.
Inizia la sua carriera come clarinettista vincendo i tentativi di boicottaggio
da parte dei dirigenti degli scout di Bologna, di cui fa parte. Gli viene chiesto di scegliere «o gli scout o il jazz». Lui sceglie il jazz. Ma nella band arriva un giovane clarinettista troppo bravo per essere secondo a qualcuno. Si chiama Lucio Dalla. Pupi tenta di ucciderlo spingendolo giù dalla Sagrada Famiglia in Spagna… Non riuscendo nel tentativo, ripone il clarinetto nell'astuccio e dopo aver visto 8½ di Fellini si dedica al cinema, dirigendo, con i soldi di un mecenate presentatogli da un nano, due film che saranno dei disastri al botteghino. Disperato finisce a lavorare per la Findus e per 4 anni si dedica alle sogliole limanda. Ma in quei anni recluta giovani pronti a lavorare di nuovo in un suo film, possibilmente gratis, e continua a cercare un produttore. Il destino lo aiuta quando Pupi lascia una sceneggiatura a Paolo Villaggio, che la dimentica in casa di Ugo Tognazzi. Tognazzi la legge e chiama Pupi dicendogli che vuol fare il film. Pupi da disoccupato (perché nel frattempo ha lasciato la Findus) si ritrova a dirigere Ugo Tognazzi che all'epoca, 1975, è l'attore più pagato d'Italia, nel film La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone. Da allora Pupi e il fratello Antonio hanno prodotto oltre 40 film, con una media di un film all'anno, hanno scoperto attori, ne hanno salvati altri, hanno
avuto successi, vinto premi, ottenuto celebrità… eppure Pupi Avati guarda ai "tempi duri" con nostalgia, e nota che la vita è troppo breve per arrivare preparati alla fine.
Ingresso gratuito
ore 22.00
Festival (1996)
Regia: Pupi Avati; soggetto e sceneggiatura: P. Avati, A. Avati, Giorgio Gosetti, Doriano Fasoli, Nino Marino; fotografia: Chicca Ungaro; scenografia: Alessandra Arienti, Alessandra D'Ettore; costumi: Isabella Rizza; montaggio: Amedeo Salfa; interpreti: Massimo Boldi, Margaret Mazzantini, Gianni Cavina, Isabelle Pasco, Paola Quattrini, Massimo Bonetti; origine: Italia; produzione: Filmauro; durata: 93'
«L'ispirazione viene dalle malinconiche traversie di Walter Chiari, ma il tratteggio dell'ambiente, nelle sue peculiarità e contraddizioni, appartiene in pieno all'esperienza di Pupi Avati che al Lido ha fatto un po' tutte le parti in commedia: il pellegrino della pellicola, il concorrente, il membro della giuria. […] Festival è soprattutto la scoperta (o, per chi capisce qualcosa di recitazione, la conferma) che Boldi è sotto sotto un commediante dotatissimo» (Kezich). «Nel realizzare Festival avrei dovuto avere più coraggio di quanto non abbia avuto. La sceneggiatura era molto più spregiudicata. Aveva un assunto: tutte le persone dal momento stesso che mettono piede sull'isola del Lido di Venezia per il festival diventano più cattive. […] Ognuno di noi vive sugli insuccessi degli altri, in una competizione tanto evidente quanto dissimulata» (Avati).
sabato 4
ore 17.00
Magnificat (1993)
Regia: Pupi Avati; soggetto e sceneggiatura: P. Avati; fotografia: Cesare Bastelli; scenografia: Alessandra Di Francesco, Elena Pinzuti; costumi: Sissi Parravicini; musica: Riz Ortolani; montaggio: Amedeo Salfa; interpreti: Luigi Diberti, Arnaldo Ninchi, Massimo Bellinzoni, Dalia Lahav, Lorella Morlotti, Eleonora Alessandrelli; origine: Italia; produzione: Duea Film, Istituto Luce-Italnoleggio Cinematografico, Penta Film, Union P.N.; durata: 95'
«È, a parer mio, un bellissimo film, il migliore tra gli italiani di questa stagione, uno dei più belli degli ultimi anni, il risultato più alto nella ventennale carriera di Pupi Avati […]. Il film intreccia una mezza dozzina di storie cui fa da filo conduttore l'itinerario del boia Folco, esecutore di giustizia (l'intenso Arnaldo Ninchi) e del suo giovane assistente, e che convergono a Malfole, all'abbazia della Visitazione» (Morandini). «Volevo rappresentare attraverso una serie di quadri e di personaggi gli elementi di quella società: la fede e la violenza. A quel tempo le pratiche spirituali convivevano con la violenza di tutti i giorni. Nel mio racconto si mescolano dunque le esecuzioni dei boia, l'ingresso di un'oblata in un monastero, le ultime ore del signore del posto, un matrimonio. Su tutto regna il silenzio di Dio, un silenzio che a quel tempo non era motivato dall'assenza, come accade oggi» (Avati).
ore 19.00
Il testimone dello sposo (1998)
Regia: Pupi Avati; soggetto e sceneggiatura: P. Avati; fotografia: Pasquale Rachini; scenografia: Steno Tonelli, Alberto Cottignoli; costumi: Vittoria Guaita; musica: Riz Ortolani; montaggio: Amedeo Salfa; interpreti: Diego Abatantuono, Ines Sartre, Dario Cantarelli, Cinzia Mascoli, Valeria D'Obici, Mario Erpichini; origine: Italia; produzione: Duea Film, Filmauro; durata: 100'
«Pupi Avati e l'amore. Un sentimento che non ha avuto mai molto spazio nella sua felice e fertilissima carriera […]. Nel film di oggi, invece, non solo l'amore è in primo piano, ma è quello, prepotente e irresistibile, del colpo di fulmine. Cui soggiace una ragazza bellissima proprio il giorno del suo matrimonio con un ricco di provincia cui i suoi genitori la destinano per motivi d'interesse» (Rondi). «Da diverso tempo pensavo ad una storia d'amore. […] Allora ho cercato un pretesto per raccontare una storia d'amore. È una delle cose più difficili del mondo, perché è il terreno più praticato. Ci sono migliaia di storie d'amore. Avevo la necessità di un punto di partenza originale, di un incipit che fosse mio e che quindi facesse scattare il tutto» (Avati).
ore 21.00
La via degli angeli (1999)
Regia: Pupi Avati; soggetto: da un'idea di Ines Vigetti, Marco Bernardini; sceneggiatura: A. Avati, P. Avati; fotografia: Cesare Bastelli; scenografia: Carlo Simi; costumi: Catia Dottori; musica: Riz Ortolani; montaggio: Amedeo Salfa; interpreti: Gianni Cavina, Valentina Cervi, Carlo Delle Piane, Libero De Rienzo, Eliana Miglio, Chiara Muti; origine: Italia; produzione: Duea Film; durata: 120'
«Gli anni 30 visti dall'Appennino emiliano. Dove tutto sembra immobile, il fascismo è un rombo lontano, il mare una meraviglia sconosciuta. E i contadini cercano moglie, le ragazze cercano l'amore, le madri vigilano e decidono. […] Torna il migliore Avati, quello capace di resuscitare facce, corpi, gesti, mentalità, un senso della comunità davvero perduto. Perché accontentarsi di una storia quando se ne possono raccontare cento? Ispirato ai ricordi di giovinezza della mamma, da poco scomparsa. La via degli angeli è il suo film più affollato e generoso» (Ferzetti). «Mi pare, soprattutto, che la metafora degli angeli che scendono dalle montagne per l'ultima volta e poi non verranno mai più, sia una delle metafore più belle del mio cinema. Perché non è criptica, è esplicita» (Avati).
domenica 5
ore 17.00
Il cuore altrove (2003)
Regia: Pupi Avati; soggetto e sceneggiatura: P. Avati; fotografia: Pasquale Rachini; scenografia: Simona Migliotti; costumi: Mario Carlini, Francesco Crivellini; musica: Riz Ortolani; montaggio: Amedeo Salfa; interpreti: Neri Marcorè, Vanessa Incontrada, Giancarlo Giannini, Nino D'Angelo, Sandra Milo, Anna Longhi; origine: Italia; produzione: Duea Film, in collaborazione con la Rai; durata: 103'
«È un Avati in stato di grazia l'Avati del Cuore altrove: e per grazia intendiamo gentilezza del tocco, tenerezza verso i personaggi, capacità di condurre l'azione con stile lieve e sapiente insieme, come ai tempi di Una gita scolastica e Festa di laurea. Sembra uno stretto consanguineo dei protagonisti di quei film, del resto, il trentacinquenne Nello Balocchi, imbranato cronico che arriva nella pingue Bologna degli anni '20 per insegnare al liceo classico e per trovare la donna della sua vita, onde assicurare discendenza alla dinastia famigliare di sarti papalini» (Nepoti). «Per la prima volta effettuo un'incursione nella commedia all'italiana di ambientazione romana. Nel romanesco. Dopo trentatré anni volevo misurarmi con quel cinema, che adoro. Amo quella grossolanità e quell'acume. Elementi che non mi ero mai azzardato a mettere nel mio cinema» (Avati).
ore 19.00
La seconda notte di nozze (2005)
Regia: Pupi Avati; soggetto: dal romanzo omonimo di P. Avati; sceneggiatura: P. Avati; fotografia: Pasquale Rachini; scenografia: Simona Migliotti; costumi: Francesco Crivellini; musica: Riz Ortolani; montaggio: Amedeo Salfa; interpreti: Antonio Albanese, Neri Marcorè, Katia Ricciarelli, Angela Luce, Marisa Merlini, Robert Madison; origine: Italia; produzione: Duea Film, Rai Cinema; durata: 103'
«Nino/Neri Marcoré è, così, un bellimbusto col mito del cinema che vivacchia alle spalle di Lilliana/Katia Ricciarelli, rimasta vedova e in miseria nella Bologna del dopoguerra. Un giorno di particolare disperazione, la protagonista scrive una lettera al cognato Giordano/Antonio Albanese, un mattocchio del profondo sud che non ha problemi di sussistenza, s'adopera a sminare i campi del circondario e un tempo fu pazzo di lei. Eccitato dai flash del rimosso ricordo, Giordano invita i parenti nella splendida masseria che condivide con due zie appassite e bigotte e, dopo una serie d'imbarazzi, piccoli guai e drammi farseschi, riesce ad accendere una vaga scintilla d'amore, la remota ipotesi di un connubio "scandaloso" quanto liberatorio. Il film si risolve tutto in una lunga preparazione, nella bonaria aneddotica che punteggia la calata nella terra promessa degli scadenti figlioli prodighi, due nullità che sotto il sole pugliese riescono a sciogliere, almeno in parte, le incrostazioni della disillusione morale e della frustrazione materiale» (Caprara). «Avevo voglia di raccontare un periodo della storia nel mio paese, alcuni anni del secondo dopoguerra, quando le tradizionali coordinate economiche si erano rovesciate, una storia in cui il Meridione appare come la terra promessa. […] Ho realizzato un film italiano, dove si respira la nostra cultura, rispettando credo la lezione di registi come Monicelli e Germi, autori meno celebrati di altri ma che hanno raccontato il nostro paese come pochi» (Avati).
ore 21.00
Il papà di Giovanna (2008)
Regia: Pupi Avati; soggetto e sceneggiatura: P. Avati; fotografia: Pasquale Rachini; scenografia: Giuliano Pannuti; costumi: Francesco Crivellini, Mario Carlini; musica: Riz Ortolani; montaggio: Amedeo Salfa; interpreti: Silvio Orlando, Alba Rohrwacher, Francesca Neri, Ezio Greggio, Serena Grandi, Paolo Graziosi; origine: Italia; produzione: Duea Film, Medusa Film; durata: 104'
«Silvio Orlando è stato premiato come miglior attore alla Mostra di Venezia per la straordinaria interpretazione di un padre professore che ama e protegge troppo, con attenzione ossessiva, la figlia adolescente Alba Rohrwacher, poco equilibrata, studentessa nello stesso liceo di Bologna 1938. È un personaggio bellissimo: frustrato (allievo del pittore Giorgio Morandi, neppure s'è avvicinato da lontano al grande modello), nevrotico, capace di rappresentare interamente la meschinità angusta della piccola borghesia italiana ai tempi del fascismo, timoroso che l'eccentricità della figlia possa nuocere alla sua rispettabilità e insieme fortemente legato a lei. Le resta accanto sempre, attraverso i momenti più tragici: un esempio di paternità appassionata e insieme malata» (Tornabuoni). «È possibile provare ancora affetto per un figlio che ha commesso un delitto atroce? Nel mio film ho simulato una situazione di questo tipo cercando di immaginare le emozioni e i sentimenti che si possono provare. Dopo l'omicidio il legame tra Giovanna e il padre non si spezza, come nel caso di quello materno, ma muta, vi è una involuzione rappresentata materialmente dalla regressione del linguaggio usato tra i due per comunicare. Mentre scrivevo questa storia mi sono commosso, e la stessa cosa mi è capitata durante le riprese perché sentivo un'autenticità di fondo che mi ha spinto ad andare avanti» (Avati).
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