“Dal 26 al 31 gennaio al cinema Trevi, la retrospettiva “Lino Capolicchio, limmoralista”
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Un volto. Un corpo. Uno sguardo. Una voce. Assolutamente anti-italiane. Una fisicità molto british. Una phoné volutamente non impostata teatralmente. Lino Capolicchio è un attore più unico che raro. Come ha scritto giustamente Gregorio Napoli «Lino Capolicchio è giustamente orgoglioso della armonia con cui una carriera zeppa di brucianti affermazioni ha saputo recuperare anche la sicurezza di non essere effimera. È arrivato per caso al cinema, ma alla recitazione ha dedicato tutto se stesso, frequentando la Accademia d'arte drammatica, e sono passati solo sette anni da quando scommise con la madre che si sarebbe affermato sulle scene. Anche lui, infatti, ha la sua piccola storia di alienazione familiare: il solito discorso di "quel che si farà da grandi". Perito chimico doveva essere, e fu invece […] un volto da ricordare in una futura antologia del cinema di protesta. "Credo di essere un vero attore, non potrei fare questo mestiere se non lo sentissi veramente". Si torna al discorso della consapevolezza, ma la pennellata più colorita l'ha data Florinda Bolkan, che Capolicchio ha avuto al fianco sul set di Metti, una sera a cena: "È un animale strano, molto cinematografico, straordinariamente complesso"». Ancora più interessante la sua visione di se stesso: «Mi diverto a studiare la gente, ma non voglio essere studiato. Ho una forma di diffidenza addirittura patologica e preferisco apparire come gli altri mi vogliono più che come realmente sono. Non amo scoprirmi ed è questo uno dei motivi per cui faccio l'attore: una, mille maschere. Ma quale il volto? Certe volte me lo domando anch'io perché finisco per fare una gran confusione e per credere realtà quella che è soltanto una mia fantasia». Come una sorta di James Dean più saggio e che non a caso recitò a Brodway L'immoralista di Gide, Lino Capolicchio è un a(u)t(t)ore, altro da sé e dagli altri. Semplicemente oltre.
martedì 26
ore 17.00 Metti, una sera a cena di Giuseppe Patroni Griffi (1969, 120')
In casa di Michele (Trintignant), scrittore inaridito, e di sua moglie Nina (Bolkan) si ritrovano spesso, a parlare di molte cose, ma soprattutto d'amore, l'attore Max (Musante) e la ricca e nubile Giovanna (Girardot). Costei è innamorata di Michele, mentre Nina lo tradisce con Max. Per ravvivare il loro rapporto, che dà segni di stanchezza, e renderlo più eccitante, Max trova per Nina un amatore eccezionale e a pagamento, Ric (Capolicchio), intellettuale ribelle. Si dà il caso, però, che il giovane contestatore si innamori di Nina, a cui si dichiara, scrive, telefona, finché, disperato, tenta di uccidersi. La donna lo salva e decide di andare a vivere con lui. Ma… «Il Ric che interpreto io è un personaggio nevrotico, che in tutte le sue azioni cerca sfogo alla nevrosi. È una parte che m'interessa moltissimo proprio per i risvolti psicologici, ed anche perché è una parte difficile, e solo un vero attore può interpretarla. Se Patroni Griffi avesse avuto bisogno di un ragazzo e basta, probabilmente avrebbe scelto uno qualsiasi e non me» (Capolicchio).
ore 19.10 Pugili di Lino Capolicchio (1997, 77')
Pugili è uno spaccato del mondo della boxe. Nel primo episodio Ciro e Raffaele, due ragazzi che praticano il pugilato nelle categorie dilettantistiche, si trovano sul ring a combattere l'uno contro l'altro, ma solo per uno di essi il match segnerà l'inizio di una carriera. Nel secondo episodio, un pugile è alla vigilia dell'incontro che potrebbe dare una svolta alla sua carriera; è circondato dal manager, da un giornalista e da un vecchio amico, ma nonostante tutto è solo con la sua paura. Nel terzo episodio un drammatico incontro mette fine alla carriera di un pugile ormai più che trentenne. Nel quarto Tiberio Mitri, con la straordinaria forza espressiva del suo volto, ricorda gioie e dolori della sua carriera di campione degli anni Cinquanta. «Il film racconta in un certo senso le stagioni della vita. Niente può farlo meglio del pugilato, perché il pugilato non è fatto di vinti o di vincitori, ma solo di esseri umani, ognuno con le proprie debolezze, i propri sogni, le proprie illusioni, e soprattutto con la dignità» (Capolicchio). Premio Fipresci al Torino Film Festival 1995.
ore 21.00 Incontro moderato da Gianni Minà con Pupi Avati, Lino Capolicchio, Fabrizio Corallo, Laura Delli Colli, Vittorio Storaro, Vincenzo Vita
a seguire Diario di Matilde Manzoni di Lino Capolicchio (2002,101')
«"Padre crudele per tutta la vita sono stata un'orfana. È questa la malattia che mi uccide". Sono le ultime parole del Diario di Matilde Manzoni, secondo lungometraggio di Lino Capolicchio […]. L'ambizioso melodramma in costume che, dichiara il regista, si rifà allo stile di Senso di Luchino Visconti, mette in scena il martirio di Matilde nel nome del padre, quell'Alessandro Manzoni tanto impeccabile di penna quanto cinico e incapace nei rapporti familiari. Ad interpretare la giovane dal volto emaciato e sofferente, perennemente frustata dall'indifferenza paterna e dai rapporti con gli uomini, è l'esordiente Ludovica Andò. Al suo fianco, nei panni degli angeli protettori, Lea K. Gramsdorff nel ruolo di Vittoria, sorella maggiore e moglie felice dell'intellettuale patriota Bista Giorgini (Alessio Boni), e Corinne Clery che interpreta la zia Tante Louise, sposa trascurata di Massimo D'Azeglio (Lino Capolicchio)» (Miriam Tola). «Nel 1982 ho letto La famiglia Manzoni di Natalia Ginzburg e più tardi Diario di Matilde Manzonidi Cesare Garboli. Qui emerge la storia di una ragazza che viveva in una Toscana in cui non succede mai nulla, lontana da un padre indifferente al suo destino. In questa scelta Manzoni è stato forse influenzato dalla seconda moglie [interpretata da Laura Betti, n.d.r.], colei che gli ha fatto conoscere l'amore sensuale. Si è ricordato della figlia solo quando è morta e ha redatto un epitaffio in perfetto italiano. Il grande scrittore italiano era in realtà una persona umanamente ignobile. Nel film c'è qualche elemento autobiografico: anch'io ho avuto un pessimo rapporto con mio padre» (Capolicchio).
mercoledì 27
ore 17.00 Mio padre, monsignore di Antonio Racioppi (1971, 94')
A pochi giorni dalla presa di Roma nel 1870 alcuni bersaglieri sono accampati sotto le mura in attesa dell'azione. Il bersagliere Carlo Alberto (Lino Capolicchio), presunto figlio naturale del Re Vittorio Emanuele II, e Orlando (Giancarlo Giannini), giovane garzone che vive alle spalle di Tosca (Marisa Merlini), matura padrona dell'osteria di Vignarossa, si incontrano. Ben presto tra i due nasce una fraterna amicizia, determinata dal fatto che entrambi non sono stati riconosciuti dai rispettivi padri. Orlando, alla ricerca di una sistemazione, incontra un monsignore e crede di ravvisare in questi il prelato che tanti anni prima lo aveva generato.
ore 19.00 La legge violenta della squadra anticrimine di Stelvio Massi (1976, 94')
«Poliziottesco girato interamente a Bari e con qualche esterno a Trani. C'è anche la star locale Rosanna Fratello. A Bari viene presentato in anteprima al cinema Royal (il "cine-salotto di Bari" segnalano i flani dei giornali). Il film è un solido prodotto alla Stelvio Massi con un buon cast internazionale. C'è anche un durissimo attacco ai giornalisti che, per qualche copia in più, non esitano a speculare su un criminale braccato dalla polizia. E un altro alla magistratura, come ricorda lo stesso Massi: "Per quel film passai persino dei guai con la magistratura di Bari perché l'avevo mostrato in una luce negativa"» (Giusti).
ore 21.00 Un apprezzato professionista di sicuro avvenire di Giuseppe De Santis (1970, 134')
«Il giovane avvocato Vincenzo Arduini è figlio di un onesto capostazione. Molto ambizioso, sposa Lucia, figlia di un costruttore senza scrupoli, e diventa assessore all'urbanistica. Durante la prima notte di matrimonio scopre di essere impotente. Ma il suocero vuole a tutti costi un nipote e, scartata l'ipotesi di adottare un bambino per non essere messo in ridicolo pubblicamente, Vincenzo convince Lucia a farsi fecondare da un altro uomo» (Marco Grossi). «Nel 1972, per riuscire finalmente a chiudere un progetto, costituisco una società di produzione con lo sceneggiatore Giorgio Salvioni. Un apprezzato professionista di sicuro avvenire è di nuovo un film ispirato a un fatto di cronaca, come mi è accaduto quasi sempre, perché la cronaca mi ha sempre stimolato. Il film è stato bocciato in censura due volte, perché la vicenda di un prete che scopre la dimensione del rapporto sessuale faceva scandalo. Il film è stato massacrato dalla critica…» (De Santis). «Un apprezzato professionista di sicuro avvenire è un film, indubbiamente personale, le cui qualità principali possono facilmente venire scambiate per difetti: gusto dell'ampollosità, del melodramma, enorme sovraccarico di ironia […]; al punto tale che la sceneggiatura, che avrebbe potuto funzionare come l'ispirazione socio-poliziesca di un Damiano Damiani, si trasforma in una gigantesca farsa, un irridente numero da grand-guignol che va letto al di là delle apparenze. […] Situato, malgrado le risonanze della sceneggiatura, nettamente al di fuori della corrente sociopolitica della produzione italiana, Un apprezzato professionista è una favola delirante sull'arrivismo, le ossessioni sessuali, l'impotenza, che Lino Capolicchio, Riccardo Cucciolla, Femi Benussi, Ivo Garrani e Yvonne Sanson interpretano con tutta la dismisura ironica richiesta. Peraltro, il film risulta piuttosto rivelatore di una comunanza di idee e di fattura tra De Santis e il Petri di Indagine su un cittadino al di sopra di ognisospetto» (Christian Viviani).
giovedì 28
ore 17.00 Vergogna, schifosi! di Mauro Severino (1969, 95')
Thriller contestatario con venature sperimentali e musiche di Morricone passate alla storia. L'oggetto dello scandalo sono le deviazioni della borghesia bene della Milano di fine anni Sessanta. Lino Capolicchio, che dopo Escalation dimostra un certo attaccamento al genere, è un pittore hippie messo alle strette dai suoi amici professionisti, perfettamente integrati nella società dei consumi, perché allarmati da strane lettere anonime di ricatto intorno a un terribile avvenimento sepolto nel loro passato. Anche in questo caso siamo di fronte ad un'opera ingiustamente invedibile da decenni, mai circolata in nessun supporto per l'home-video né trasmessa facilmente dai circuiti televisivi.
ore 19.00 L'ultimo giorno di scuola prima delle vacanze di Natale di Gian Vittorio Baldi (1975, 87')
Nel corso della seconda guerra mondiale, tre fascisti - due uomini e una ragazza - uccidono crudelmente gli occupanti di un pullman accusandoli di inesistenti tradimenti. «Come ha strutturato Baldi il suo film? Da un lato Ultimo giorno di scuola… è cronaca essenziale con gli strumenti del classico documentarismo: macchina a mano alla vibrante ricerca dei particolari, sonoro e dialoghi registrati in presa diretta, eliminazione di qualsiasi compiacimento figurativo, linguaggio secco e spoglio intervallato da angosciosi tempi morti. D'altro lato, attraverso la crescente emblematizzazione della corriera e dei personaggi che essa trasporta, il film diventa un racconto allegorico, allucinato, che trasfigura continuamente la cronaca in simbolo» (Pintus).
ore 21.00 Escalation di Roberto Faenza (1968, 95')
«La scalata è quella di una psicoterapeuta londinese che - avuto in cura il figlio hippy di un industriale italiano perché lo riporti nei ranghi - si fa da lui sposare, rendendolo uno schiavo d'amore. […] Film sessantottesco per la rabbiosa contestazione del sistema sulla scia di I pugni in tasca e parallelo a Grazie zia. L'esordiente Faenza filtra gli umori anarchici e libertari attraverso un sarcasmo più divertito e una figurazione stilizzata non lontana dai fumetti in chiave pop» (Morandini). «Il racconto è serrato, senza pausa. Le immagini sono molto luminose; i modernissimi interni sono estrosi, animati da colori sonanti [...]. Morricone ha dato musiche squillanti e irridenti, che aderiscono alle intenzioni del racconto e ne accrescono la carica interna. La riuscita del film sta anzitutto nella rara lucidità della impostazione [...] nella immediatezza con cui Faenza ha dato corpo ad un assunto di natura [...] intellettualistica. [...] Eccellenti gli attori» (Clemente).
venerdì 29
ore 17.00 Amore e ginnastica di Luigi Filippo d'Amico (1973, 108')
L'ex seminarista Simone (Lino Capolicchio) s'innamora di un insegnante di ginnastica (Senta Berger) che vive nel suo palazzo, la quale si dedica anima e corpo all'educazione fisica, senza pensare alla vita privata e al matrimonio. «D'Amico, come da un podio, orchestra una composizione scenografica tra caffè gozzaniani, sontuosi palazzi Savoia, il verde dei parchi cittadini; mette in scena severi educatori regi, operai delle scuole serali, svelte madamine, vigorosi ginnasti, canottieri che sfilano sul fiume; gioca con le invenzioni linguistiche del torinese Tullio Pinelli che "sciacqua nel Po" De Amicis per accentuarne tratti da siparietto di caffè chantant. Infine, la fotografia di Marcello Gatti mostra una Torino solare in alcuni dei suoi scorci più belli, da Palazzo Madama al Valentino, i cui colori brillanti sono restituiti dal restauro fatto dalla Cineteca Nazionale per le Universiadi» (Toffetti).
ore 19.00 La casa dalle finestre che ridono di Pupi Avati (1976, 112')
«Stefano, restauratore professionista di opere d'arte, si reca a Comacchio su invito dell'amico Antonio Mazza per lavorare al recupero dell'affresco contenuto nella chiesa del paese e raffigurante il martirio di San Sebastiano. Il dipinto, in gran parte invisibile per gli inevitabili segni del tempo, è opera di Buono Legnani, pittore di agonie morto suicida anni prima, corroso dalla propria follia. Egli usava ritrarre soggetti in punto di morte, per fissare il momento del decesso e trarne godimento. Stefano, giunto in paese, entra in contatto con una comunità chiusa, ostile e piena di segreti inconfessabili e atroci. […] Opera di culto, riconosciuta dalla critica come autentica perla del cinema di genere» (Adamavit e Bartolini). «In La casa dallefinestre che ridono ho cercato di spaventare attraverso la solarità, andando così contro gli stereotipi del genere, per avere un elemento innovativo all'interno del genere stesso, che prevede e suppone immagini standard, dove il buio è re. Invece nel mio film ho mostrato che anche gli spazi aperti, bruciati dal sole, possono e riescono a essere altrettanto spaventosi» (Avati).
ore 21.00 Solamente nero di Antonio Bido (1978, 109')
Stefano D'Arcangeli (Lino Capolicchio), giovane docente universitario di matematica, per curarsi dal fastidioso esaurimento nervoso di cui soffre con la conseguenza di incubi, raggiunge un'isola della laguna veneziana, Murano, ove è parroco il fratello Don Paolo (Craig Hill). Questi è da tempo oggetto di una serie di lettere minatorie, nonché vittima di forti ostilità da parte del conte Mariani (Massimo Serato), del dottor Aloisi (Attilio Duse) e dell'ostetrica Nardi (Juliette Meyniel), un gruppo di persone solite radunarsi presso una fattucchiera (Laura Nucci) per delle sedute spiritiche. Stefano, che nel frattempo diviene l'amante della giovane arredatrice Sandra Sellani (Stefania Casini), tenta invano di scoprire l'insieme dei misteri che lo avvolgono. «Thrilling ambientato a Murano, un ambiente chiuso, a due passi da Venezia, dove si verificano alcuni strani delitti che l'omertà degli abitanti colora d'incubo» (Zanotto).
sabato 30
ore 17.00 Càlamo di Massimo Pirri (1976, 113')
«Riccardo, appartenente ad una decaduta famiglia di notabili pugliesi, studia in Svizzera in un istituto religioso spinto verso una confusa vocazione mistica. La sorellastra Stefania, con la quale egli ha avuto rapporti incestuosi, gli annuncia il proprio matrimonio. Riccardo tenta allora di riconquistarla, ma invano. Lascia la scuola e si unisce ad una comunità hippy che gli fa conoscere la droga» (www.mymovies.it). «È un film che parla di giovani e dell'impossibilità materiale di comunicazione fra i due grandi gruppi in cui essi si dividono. Nel primo, quelli pienamente realizzati o che hanno già individuato strade e strumenti per raggiungere i loro obiettivi; nel secondo, coloro che questi strumenti non li posseggono, per diversi motivi, e che dunque non riescono a realizzarsi. Lo scontro o l'incontro di questi due blocchi, che reciprocamente si attirano e si affascinano, provoca un "corto circuito". Ci sono implicazioni politiche, ma mediate da questi elementi: il mio esame si compie attraverso un occhio che non divide in fazioni, ma che diviene, però, "fazioso" quando individua le strutture che ingabbiano molti giovani, occultando loro i mezzi che possono aiutarli a definirsi, a prendere coscienza di se stessi. Strutture come un certo tipo di borghesia, quella disimpegnata, [...] quella dell'accettazione passiva dei compromessi; ed è proprio questa classe sociale a partorire la figura del protagonista, un uomo che vive, da vittima, tutte le contraddizioni del suo tempo fino al sacrificio» (Pirri).
ore 19.00 Di mamma non c'è una sola di Alfredo Giannetti (1974, 106')
Il rampollo di una nobile e ricca famiglia (Lino Capolicchio) si trova, alla morte della madre alla quale era attaccatissimo, a fronteggiare avvenimenti piuttosto insoliti: un giardiniere si rivela essere marito della defunta, uno zio si scopre essere suo padre, una giovane per consolarlo si mette ad imitare la madre defunta. Commedia nera e grottesca, anomala nel panorama conformista del cinema italiano. Altri interpreti: Senta Berger, Sonia Petrova, Vittorio Caprioli, Lionel Stander.
ore 21.00 Mussolini ultimo atto di Carlo Lizzani (1974, 129')
Caduta la linea Gotica nella primavera del 1945, gli Alleati si dirigono verso Milano; i partigiani dilagano in tutto il Nord Italia e i tedeschi si ritirano verso Merano. Mussolini, assai perplesso e fornito di notizie illusorie dai gerarchi nazisti rimasti al suo fianco, rifiuta l'opera di mediazione del cardinale Schuster e dalla capitale lombarda si dirige verso la Valtellina, ove sarebbe atteso da migliaia di camicie nere. «Capita molto raramente che il declino di un potente venga rappresentato con altrettanta insistenza ed efficacia, e che la protervia di un tiranno si trovi così fermamente rispecchiata nella pietà, più ancora che nel disprezzo. La Storia non cambia, di certo, né possono mutare i giudizi sugli atti e sui comportamenti. Ma non si rischia nulla a osservare un potere sconfitto, braccato, inseguito, prigioniero della paura prima ancora che degli avversari, forse preda del rimorso. Al contrario, se ne può ricavare un insegnamento di speranza, di pietà, di umana compassione» (Giacci).
Pugili è uno spaccato del mondo della boxe, raccontato attraverso quattro storie di pugili. Nel primo episodio Ciro e Raffaele, due ragazzi che praticano il pugilato nelle categorie dilettantistiche, si trovano sul ring a combattere l'uno contro l'altro, ma solo per uno di essi lo scontro segner` l'inizio di una carriera. Nel secondo episodio, un pugile è alla vigilia dell'incontro che potrebbe dare una svolta alla sua carriera; è circondato dal manager, da un giornalista e da un vecchio amico, ma nonostante tutto è solo con la sua paura. Nel terzo episodio un drammatico incontro mette fine alla carriera di un pugile ormai più che trentenne. Nel quarto Tiberio Mitri, con la straordinaria forza espressiva del suo volto, ricorda gioie e dolori della sua carriera di campione degli anni '50.
«ll film racconta in un certo senso le stagioni della vita. Niente può farlo meglio del pugilato, perché il pugilato non è fatto di vinti o di vincitori, ma solo di esseri umani, ognuno con le proprie debolezze, i propri sogni, le proprie illusioni, e soprattutto con la propria dignit`» (Lino Capolicchio)
«ll film racconta in un certo senso le stagioni della vita. Niente può farlo meglio del pugilato, perché il pugilato non è fatto di vinti o di vincitori, ma solo di esseri umani, ognuno con le proprie debolezze, i propri sogni, le proprie illusioni, e soprattutto con la propria dignit`» (Lino Capolicchio)
domenica 31
ore 17.00 Noi tre di Pupi Avati (1984, 89')
«Mozart si può raccontare in più modi. Amadeus di Milos Forman ha un'impostazione completamente diversa dalla mia, una messa in scena hollywoodiana, sontuosa. In quell'ottica è difficile mostrare Mozart, come ho fatto io, come un ragazzo non molto sveglio, quasi un ebete… Con il film biografico si corre sempre qualche rischio. […] Volevo girare un film mozartiano cercando innanzitutto di avere una legittimazione a raccontare quella storia. Ho colto un frammento della sua esistenza, l'errore di Mozart all'esame dell'Accademia dei Filarmonici, cercando di indagarlo in modo piacevole, attraverso ricerche approfondite, sino a farlo diventare un giallo. Come può un genio cadere in una svista così banale? L'interpretazione che ho dato, e di cui vado molto orgoglioso, è che Mozart scelga di sbagliare per sfuggire al destino di diventare Mozart, agisce contro il suo stesso talento. Ha capito che la genialità, attraverso il modello dello zio matto […], porta ad essere tagliati fuori da quella quotidianità che lui aveva vissuto per la prima volta con altri coetanei» (Avati).
ore 19.00 Fiorile di Paolo e Vittorio Taviani (1993, 119')
La famiglia Benedetti si reca dalla Francia in Italia per andare a trovare il nonno malato. Durante il viaggio il padre racconta ai due figli la storia della sua famiglia e la ragione per la quale le è stato affibbiato il nomignolo "famiglia dei maledetti". «Il film si fa via via ricco per l'emozione sotterranea che impregna la plasticità del paesaggio, così che verrebbe voglia di definirlo un film nel quale i Taviani amorosamente hanno evocato il misterioso sentimento delle cose che impregna le più assolate campagne nostrane. […] Film visionario invece che realistico, film di magia senza alcun tocco di effetti speciali, Fiorile lascia dilagare di sequenza in sequenza una passione per la concretezza che si rovescia nel proprio opposto, fino a passare il segno, poiché, in modo palese, la storia di famiglia evapora e restano purissime linee emotive a far cinema di per sé» (Siciliano).
ore 21.15 Il giardino dei Finzi Contini di Vittorio De Sica (1970, 95')
Tratto dal fortunato romanzo omonimo di Giorgio Bassani, pubblicato nel 1962, il film narra le vicende di un gruppo di giovani della borghesia ebraica di Ferrara, che vede la sua vita agiata travolta dalle leggi razziali, dalla guerra e infine dalla deportazione. «Se la partenza del film costruisce atmosfere in una qualche misura aderenti al libro di Bassani, i suoi sviluppi cercano una più lunga gravitazione. Suddiviso complessivamente in due grossi quadri sequenziali, il racconto di immagini s'accosta alle esperienze private dei personaggi ma si allarga alle vicende politiche e storiche che con quelle hanno continuità. Di qui forse discende la perdita di circolarità (che Giorgio Bassani aveva ricavato da Proust), con l'acquisto invece di una spiccata linearità» (De Santi).
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