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Tra morale e purezza, il cinema di Damiano Damiani
18 Giugno 2013 - 23 Giugno 2013
 «Comunque vada, l’autore si trova rimestato in un crogiolo di definizioni, di interpretazioni, di classificazioni, di aggettivi, un tutto che… assume qualche volta la conturbante fisionomia dell’epitaffio»
Damiano Damiani
 
Si spegneva il 7 marzo all’età di 91 anni a Roma il grande regista e sceneggiatore Damiano Damiani, uno dei protagonisti del cinema italiano degli anni Sessanta e Settanta. Prendiamo a prestito alcuni frammenti della prefazione del bel volume di Alberto Pezzotta Regia Damiano Damiani (Centro Espressioni Cinematografiche, Cinemazero, La Cineteca del Friuli, Centro Sperimentale di Cinematografia – Cineteca Nazionale, 2004) utili a delineare un profilo non banale del cineasta: «Regista di fatti, solido narratore: “il più americano” dei registi italiani, un po’ per le ascendenze da lui stesso dichiarate, un po’ secondo un’etichetta critica che per anni verrà declinata con diverse sfumature, a volte sottilmente limitative: il narratore di storie, artigiano ma non artista. Regista amato da molti critici francesi, che di fronte a film come Confessioni di un Commissario di Polizia al Procuratore della Repubblica e L’istruttoria è chiusa: dimentichi, conoscono un “cinema politico, maggiorenne e vaccinato”, tanto più audace del loro cinema “sinistro e lugubre”. Senza dimenticare che il nome di Damiani, nel 1971, significa anche successo, investimento sicuro per i produttori, garanzia di spettacolo per il pubblico. Confessioni di un Commissario di Polizia incassa due miliardi di allora, ed è dodicesimo in una classifica di film italiani dominata da Continuavano a chiamarlo Trinità e Il Decameron. “Sei il solo dei registi impegnati che io ammiro sinceramente” gli scriveva Ennio Flaiano in quegli anni. “E sai perché? Per il tuo stile ‘naturale’, ‘scritto male apposta’, per il tuo rifuggire da tutte le leziosaggini e dall’ornato, dal male di tutti i nostri registi”. “Sei un amaro moralista assetato di vecchia purezza”, gli scriveva Pier Paolo Pasolini nel 1968. Testimonianze che piace riportare non solo e non tanto per esibire un’investitura prestigiosa, ma per dare un’idea della stima di cui godeva Damiani in quegli anni tra i più belli e vivaci della storia del nostro cinema. Per tutti gli anni Settanta Damiani è un regista di punta accanto a Petri e Rosi: quando si tratta di discutere della posizione del cinema italiano civile dopo l’omicidio di Moro, sono loro tre che interpella L’Espresso. Molto contava, certamente, l’opera di Damiani all’interno dell’ANAC, le ripetute battaglie contro la censura, a partire da quella in occasione della legge Corona, nel 1965: tutte cose di cui oggi si è persa la memoria. […] Al di là delle incognite e delle oscillazioni del gusto, la posizione di Damiani nella storia del cinema italiano è salda e incontestabile. Micciché […] lo inserisce […] a fianco di Bolognini, Comencini, Lattuada, Lizzani […]. Per Brunetta, […] Damiani è uno degli “eredi legittimi” dei padri fondatori: meno caratterizzato di Bellocchio e dei fratelli Taviani, ma pur sempre in compagnia di Maselli, Montaldo, Petri, Pontecorvo, Rosi. […] Più di altri registi, tuttavia, Damiani ha patito una sorta di isolamento. Con la critica il rapporto è stato difficile, spesso diffidente, inficiato dall’applicazione pigra di etichette cristallizzatesi da decenni. E anche se non sono mancati apprezzamenti puntuali e prestigiosi […], si è trattato di una relazione mai data per scontata, ridefinita a ogni singola opera, e comunque incapace di creare quella museificazione in vita che è arrisa (si fa per dire) ad altri suoi colleghi. E soprattutto, sono mancati gli strumenti di analisi adatti a cogliere l’originalità e l’importanza di un cinema fatto sulla realtà, un cinema popolare e civile, che scivola tra le rassicuranti aspirazioni all’arte e i cedimenti alle pratiche basse, diventati oggi altrettanto suggestivi».
Vi segnaliamo, inoltre, il convegno, a cura di Christian Uva, Damiano Damiani: politica dell’autore, autore della politica, in programma venerdì 7 giugno alle ore 10 al Teatro Palladium (piazza Bartolomeo Romano 8, Roma), nell’ambito Roma Tre Film Festival, diretto da Vito Zagarrio. Intervengono: Anton Giulio Mancino, Alberto Pezzotta, Christian Uva, Giacomo Manzoli, Gius Gargiulo, Emiliano Morreale, Dana Renga, Roy Menarini, Vito Zagarrio. A seguire verrà proiettato il doc. La Sicilia vista da Damiano Damiani di Sibilla Damiani, da un’idea di Elio Matarazzo.
 
martedì 18
ore 17.00
Il rossetto (1960)
Regia: Damiano Damiani; soggetto: D. Damiani; sceneggiatura: Cesare Zavattini, D. Damiani; fotografia: Pier Ludovico Pavoni; montaggio: Fernando Cerchio; scenografia: Sergio Baldacchini; musiche: Giovanni Fusco; interpreti: Laura Vivaldi, Pierre Brice, Pietro Germi, Georgia Moll, Bella Darvi, Ivano Staccioli; origine: Italia/Francia; produzione: Europa Cinematografica, Explorer Film, C.F.P.C.; durata: 94′
Un quartiere piccolo borghese alla periferia di Roma. L’ingenua tredicenne Silvana, figlia di madre separata, è innamorata del vicino di casa Gino. L’ha visto uscire dall’appartamento di una prostituta che è stata uccisa. Ma non lo rivela alla polizia, che ha arrestato l’innocente garzone Vincenzo. Ne approfitta invece per avvicinare il giovanotto, che le dà corda per tenerla buona, ma dal rapporto con la ricca fidanzata Lorella se ne intuisce l’avidità e il cinismo. «Il pretesto è un’indagine poliziesca su un atroce delitto, la sostanza del film va ricercata nell’atto di accusa, evidentissimo, all’ipocrisia del nostro mondo. È la prima prova del regista Damiani al quale Zavattini ha dato, secondo suo costume, piena fiducia» (Casiraghi). «A distanza di pochi mesi dal Maledetto imbroglio, ecco un nuovo tentativo di “giallo all’italiana”. […] Damiani, pur rivelando una certa ingenuità e cadendo in alcuni seri errori di gusto, sa tuttavia conferire una maggior complessità psicologica e quindi una maggior umanità ai suoi personaggi, approfondendo l’indagine del costume e della sessualità contemporanea» (Spinazzola).
 
ore 19.00
L’isola di Arturo (1962)
Regia e soggetto: Damiano Damiani, dal romanzo omonimo di Elsa Morante; sceneggiatura: Ugo Liberatore, Enrico Ribulsi, D. Damiani; collaboratore alla sceneggiatura: Cesare Zavattini; fotografia: Roberto Gerardi; montaggio: Adriana Novelli; scenografia: Franco Mancini; costumi: Vera Marzot, Cesare Rovatti; musica: Carlo Rustichelli; interpreti: Vanni De Maigret, Key Meersman, Reginald Kernan, Gabriella Giorgelli, Luigi Giuliani, Elvira Tonelli; origine: Italia; produzione: Compagnia Cinematografica Champion; durata: 93′
La voce narrante del quindicenne Arturo racconta in flashback la propria storia. Sull’isola di Procida, Arturo vive in una grande casa deserta, aspettando i rari ritorni del padre Wilhelm, da lui tanto mitizzato per la sua vita misteriosa, quanto freddo e scostante. Tutto cambia quando Wilhelm torna con una giovane moglie napoletana, Nunziatina. Arturo è geloso e diffidente. Le assenze di Wilhelm pesano anche su Nunziatina, che aspetta un figlio. «Damiano Damiani portando sullo schermo L’isola di Arturo s’è trovato di fronte a una difficoltà forse insuperabile: tradurre in immagini quello sdoppiamento del mito e della realtà che fornisce al libro la sua profondità. Damiano Damiani ha fatto ricorso al “narratage” ossia ad una voce fuori campo, per illustrare la facoltà mitologizzante di Arturo. Ma dire le cose non è ancora rappresentarle. […] Un po’ freddo e casuale all’inizio, il film prende quota soprattutto nel secondo tempo a misura che il quadro dei complicati e passionali rapporti tra padre e figlio e matrigna dapprima dipinto con sparsi segni si ricompone in una vicenda unitaria e drammatica» (Moravia).
 
ore 21.00
La rimpatriata (1963)
Regia: Damiano Damiani; soggetto: D. Damiani; sceneggiatura: D. Damiani, con la collaborazione di Ugo  Liberatore, Enrico Ribulsi, Vittoriano  Petrilli; fotografia: Aless andro  D’Eva; scenografia: Mauro Bertinotti; costumi: Ebe Colciaghi; musica: Roberto Nicolosi; montaggio: Giuseppe Vari; interpreti: Walter Chiari, Francisco Rabal, Paul Guers, Riccardo Garrone, Mino Guerrini, Dominique Bosquero; origine: Italia/Francia; produzione: 22 Dicembre, Galatea, Societé Cinématographique Lyre; durata: 111′
A Milano, un gruppo di amici alla soglia dei quarant’anni si riunisce per passare insieme una serata dopo non essersi visti per molto tempo. Sono tutti sistemati, con famiglia e professione avviata, tranne Cesarino, simbolo di una vita senza regole, legami e responsabilità, l’unico che abbia conservato lo spirito dei bei tempi andati. La serata passa nella ricerca della spensieratezza e della felicità che avevano caratterizzato la loro giovinezza. «Damiani trova il tono giusto per raccontare la borghesia degli anni Sessanta: impietoso, senza sconti, coraggioso nel descrivere voglie basse (e la censura dell’epoca ebbe qualcosa da ridire). Con il pathos che si concentra nella figura del bigamo Cesarino, cialtrone generoso, unico disinteressato, in cui Chiari mette molto di sé; ma senza la facile scappatoia della tragedia catartica. […] Poco visto all’epoca, merita una rivalutazione» (Mereghetti).
 
mercoledì 19
ore 17.00
La noia (1963)
Regia: Damiano Damiani; soggetto: dal romanzo omonimo di Alberto Moravia; sceneggiatura: Tonino Guerra, Ugo Liberatore, D. Damiani; fotografia: Roberto Gerardi; scenografia: Carlo Egidi; costumi: Angela Sammaciccia; musica: Luis Enriquez Bacalov; montaggio: Renzo Lucidi; interpreti: Horst Buchholz, Catherine Spaak, Bette Davis, Georges Wilson, Leonida Repaci, Isa Miranda; origine: Italia/Francia; produzione: Compagnia Cinematografica Champion, Les Films Concordia; durata: 104′
«Dino, scoperta la sua incapacità di comunicare con il prossimo, si abbandona all’ozio più completo in compagnia di una giovanissima modella per la quale prova solo un’attrazione fisica. Anche questa passione sta per annoiarlo quando scopre che la ragazza, Cecilia, lo tradisce. Sorge allora in lui una furiosa gelosia che lo acceca. Pur di tenere legata a sé Cecilia, Dino le chiede di sposarlo» (www.cinematografo.it). «La noia è un romanzo di Moravia che Tonino Guerra e io, in fase di sceneggiatura, abbiamo tentato di rispettare quasi alla lettera, anche perché era una storia molto semplice […]. In fase di sceneggiatura, Moravia un po’ comparve, un po’ collaborò, perché gli facemmo scrivere i dialoghi. E quella, secondo me, fu un’operazione giusta. Nei confronti di una sua opera trasposta per lo schermo Moravia ha un’opinione precisa che io condivido: che un regista può fare qualsiasi cosa da un romanzo perché tanto è un’altra faccenda» (Damiani).
 
ore 19.00
Il giorno della civetta (1968)
Regia: Damiano Damiani; soggetto: dal romanzo omonimo di Leonardo Sciascia; sceneggiatura: Ugo Pirro, D. Damiani; fotografia: Tonino Delli Colli; scenografia: Sergio Canevari; costumi: Marilù Carteny; musica: Giovanni Fusco; montaggio: Nino Baragli; interpreti: Franco Nero, Claudia Cardinale, Lee J. Cobb, Gaetano Cimarosa, Nehemiah Persoff, Serge Reggiani, Ennio Balbo, Ugo D’Alessio; origine: Italia/ Francia; produzione: Panda Cinematografica, Les Films Corona; durata: 109′
«Damiano Damiani rilegge Sciascia sette anni dopo l’uscita dello splendido omonimo romanzo in un film poderoso, denso, anche se un po’ rozzo, pieno d’azione e sparatorie con una Sicilia un po’ troppo vicina all’Arizona. Il veemente Franco Nero trova nel capitano nordista a disagio con la diffidenza degli isolani il miglior personaggio della carriera. Claudia Cardinale è bellissima e saggiamente doppiata. Su tutti spicca per stazza l’attore Lee J. Cobb, il cinico capomafia con qualche lampo di umanità» (Bertarelli).
 
ore 21.00
L’istruttoria è chiusa: dimentichi (1971)
Regia: Damiano Damiani; soggetto: D. Damiani, dal romanzo Tante sbarre di Leros Pittoni; sceneggiatura: Dino Maiuri, Massimo De Rita, D. Damiani; fotografia: Claudio Ragona; montaggio: Antonio Siciliano; scenografia: Umberto Turco; costumi: Marilù Carteny; musiche: Ennio Morricone; interpreti: Franco Nero, Riccardo Cucciolla, John Steiner, Ferruccio De Ceresa, Turi Ferro, Claudio Nicastro; origine: Italia; produzione: Fair Film; durata: 106′
Imputato di omicidio colposo e omissione di soccorso (per un incidente stradale di cui non si sa se egli sia davvero responsabile), il giovane e brillante architetto Vanzi finisce in prigione. Ben presto, la vita del carcere, la vicinanza di compagni di pena prepotenti e facili alla violenza, l’irragionevole durezza dei regolamenti e i metodi repressivi delle guardie gli causano una profonda angoscia. Trasferito in una cella migliore per l’intervento di Rosa (una sorta di capomafia del carcere che si è fatto imprigionare per difendere alcuni personaggi altolocati, responsabili di una spaventosa sciagura), Vanzi ha per nuovo compagno un certo Pesenti, che è in possesso di prove sufficienti a incriminare i suddetti individui. «Damiani allarga la visuale di questa testimonianza individuale a un quadro molto duro ed efficace di una situazione collettiva: il carcere è presentato, appunto, come un microcosmo dell’Italia “libera”, regolato da discriminazioni d’ogni tipo mantenute dall’ossessiva presenza del potere mafioso. Quando i detenuti accolgono il discorso del capoguardia al grido di “duce, duce”, nella forte sequenza della rivolta, esprimono qualcosa che va al di là dell’intenzione satirica: identificano cioè l’autoritarismo clientelare come una reincarnazione del fascismo di ieri» (Kezich).
 
giovedì 20
ore 17.00
Il sorriso del grande tentatore (1974)
Regia: Damiano Damiani; soggetto: D. Damiani; sceneggiatura: D. Damiani, Fabrizio Onofri, Audrey Nohra; fotografia: Mario Vulpiani; montaggio: Peter Taylor; scenografia: Umberto Turco; costumi: Mario Giorsi; musica: Ennio Morricone; interpreti: Claudio Cassinelli, Glenda Jackson, Lisa Harrow, Adolfo Celi, Duilio Del Prete, Arnoldo Foà; origine: Italia/Gran Bretagna; produzione: Euro International Films, Lifeguard Productions; durata: 115′
Lo squattrinato scrittore Rodolfo è temporaneamente ospite in un convitto per aiutare monsignor Badensky, polacco accusato di collaborazionismo che deve scrivere un memoriale. Anche gli altri ospiti hanno vari peccati da scontare: il vescovo cubano Marquez ha simpatie comuniste; un prete operaio si è allontanato dalla Chiesa; il principe Ottavio è innamorato della sorella; l’amministratrice laica Emilia, boliviana, ha tradito il marito consegnandola ai rivoluzionari. La madre superiora suor Geraldine organizza inquietanti confessioni collettive e tiene tutti succubi. «Lo spunto, a partire dal titolo, è chiaramente offerto dalle recenti affermazioni di Paolo VI sul diavolo. Ma se il “tentatore” esiste, come ha detto il papa, chi ti assicura che esso non si celi sotto l’apparato controriformista di cui il convitto-albergo rappresenta il condensato? Lo farebbe pensare il finale del film con il suo improvviso ribaltamento della situazione: il “tentatore” che si libera dalla tentazione di rimanere sotto le ali protettrici di suor Geraldine, che è poi la tentazione di scaricare su un potere superiore le nostre colpe, a prezzo naturalmente della libertà individuale. Damiani ha descritto bene questa entità tentatrice, fondendo, come raramente ci era accaduto di osservare sullo schermi, il cattivante aspetto umano di suor Geraldine (una inappuntabile Glenda Jackson) con la cornice scenografica del convitto […]. Nel complesso il giudizio non può non essere positivo e bisogna dare atto a Damiani di avere voluto allargare coraggiosamente lo striminzito panorama tematico dell’attuale cinema italiano» (Cosulich).
 
ore 19.00
Un uomo in ginocchio (1979)
Regia e soggetto: Damiano Damiani; sceneggiatura: Nicola Badalucco, D. Damiani; fotografia: Ennio Guarnieri; montaggio: Enzo Meniconi; scenografia: Umberto Turco; costumi: Mario Giorsi; musica: Franco Mannino; interpreti: Giuliano Gemma, Michele Placido, Eleonora Giorgi, Ettore Manni, Tano Cimarosa, Andrea Aureli; origine: Italia; produzione: Rizzoli Film; durata: 110′
Nino Peralta è gestore di un chiosco-bar nei pressi della Cattedrale di Palermo. Un giorno, messo sull’avviso dal suo socio, Sebastiano Colicchia, si accorge d’essere pedinato da un certo Platamone, probabile sicario a pagamento. Prima ancora che riesca ad affrontarlo direttamente, Nino viene a sapere di essere nella lista di persone da eliminare di una cosca mafiosa e si rende conto che la catena di uccisioni sta procedendo inarrestabile. Peralta cerca invano chi lo possa aiutare a scagionarsi poiché, a quanto sembra, la sua condanna a morte è stata decisa per il fatto che una tazzina del bar era stata rinvenuta nel nascondiglio-prigione della moglie di un grosso mafioso e l’indizio lo legherebbe alla cosca nemica. «Un uomo in ginocchio si muove col consueto piglio realistico di Damiani sullo sfondo d’una Sicilia che ancora una volta enfatizza il Male e il Bene, e dunque offre spunti efficaci a uno spettacolo popolare, qui condensato nei profili dei due protagonisti, e diffuso nei modi del thriller sociale d’origine americana […]. L’aspetto più interessante del film è nel confronto tra Nino e Platamone, ciascuno con una famiglia affamata alle spalle: un killer e il suo bersaglio che potrebbero essere amici se la paura e la miseria non li mettessero l’uno contro l’altro sconfiggendo le buone intenzioni. Nonostante qualche eccessiva concessione al melodramma, Damiani ne compie i caratteri con umana partecipazione, temperando il suo determinismo un po’ ottocentesco con una volenterosa analisi psicologica, e ci trasmette con abilità di giallista le tensioni prodotte dal reciproco sospetto» (Grazzini).
 
venerdì 21
ore 17.00
Io ho paura (1977)
Regia: Damiano Damiani; soggetto e sceneggiatura: Nicola Badalucco, D. Damiani; fotografia: Luigi Kuveiller; scenografia: Umberto Turco; costumi: Luciana Marinucci, Wanda Pruni; musica: Riz Ortolani; montaggio: Antonio Siciliano; interpreti: Gian Maria Volonté, Erland Josephson, Mario Adorf, Angelica Ippolito, Bruno Corazzari, Giorgio Cerioni; origine: Italia; produzione: Auro Cinematografica; durata: 119′
«Protagonista del film è il “questurino” Ludovico Graziano, uno dei tanti entrati in polizia “per fame”, tipico esemplare di poliziotto pasoliniano. Il Graziano è anche un poliziotto sui generis: ha una relazione turbolenta con una bella ragazza rossa di capelli e di gusti politici, tipica esponente di quella “buona razza” piccolo borghese, classista e figlia di papà avversata dal Pasolini “pro-celerino”. Il brigadiere, pur agendo nel contesto di un’opera collocabile sul terreno del poliziesco, è dunque ben lontano dai commissari di ferro di quel filone cinematografico perché non è un duro, ma una figura delicata e sensibile che ha il coraggio di dire “io ho paura”, facendosi portavoce di un sentimento comune quanto mai diffuso a tutti i livelli nella società dell’epoca. L’impianto del film di Damiani fa hitchcockianamente leva sulla classica figura dell'”innocente” capitato, suo malgrado, dentro un gioco che immancabilmente finisce per stritolarlo. Un gioco che in quel momento storico si ripete drammaticamente uguale a se stesso, fatto di stragi di innocenti e di alleanze tra terrorismo e sezioni deviate dello Stato» (Uva).
 
ore 19.15
L’avvertimento (1980)
Regia: Damiano Damiani; soggetto: D. Damiani, Nicola Badalucco, Arduino Maiuri, Massimo De Rita; fotografia: Alfio Contini; scenografia: Andrea Crisanti; costumi: Giulia Mafai; musica: Riz Ortolani; montaggio: Antonio Siciliano; interpreti: Giuliano Gemma, Martin Balsam, Laura Trotter, Giancarlo Zanetti, Guido Leontini, Franco Odoardi; origine: Italia; produzione: Capital Film; durata: 109′
«Il commissario Barresi (Gemma) trova 100 milioni in “regalo” sul suo conto in banca, appena prima che venga ucciso il capo della mobile: ma decide di stare al gioco di chi cerca di corromperlo, per incastrare i mandanti. Damiani […] punta il dito contro la criminalità dell’alta finanza e riprende lo schema di Io ho paura: un uomo solo che sfida un’organizzazione potente e senza volto, commettendo un errore dopo l’altro. E per rappresentare il disorientamento e la paranoia, si affida a una girandola di colpi di scena che a volte diventa troppo teatrale. La società e il cinema stavano cambiando, e gli strumenti dei film di denuncia anni Settanta non bastavano più: anche se la confezione resta solida e la suspense tiene fino al termine» (Mereghetti).
 
sabato 22
ore 17.00
Un genio, due compari, un pollo (1975)
Regia: Damiano Damiani; soggetto: Ernesto Gastaldi, Fulvio Morsella; sceneggiatura: Ernesto Gastaldi, D. Damiani, Fulvio Morsella; fotografia: Giuseppe Ruzzolini; montaggio: Nino Baragli; scenografia: Carlo Simi, Francesco Bronzi; costumi: Franco Carretti; musica: Ennio Morricone; interpreti: Terence Hill, Miou-Miou, Robert Charlebois, Patrick McGoohan, Raymund Harmstorf, Klaus Kinski; origine: Italia/Francia; produzione: Rafran Cinematografica, Agence Meditérranéenne de Location de Film, Rialto Film Preben Philipsen; durata: 126′
Il velocissimo pistolero Joe Tex convince due ladruncoli, il mezzosangue Locomotiva Bill e la sua amica Lucy, a organizzare una truffa ai danni del maggiore Cabot, per sottrargli trecentomila dollari che l’ufficiale ha tenuto per sé invece di darli agli indiani cu erano destinati. «Tornato al western dopo Quién sabe?, il prolifico ed eclettico Damiano Damiani, un regista al quale tutto si può negare fuorché la grande passione per il suo mestiere e un contagioso entusiasmo, si arrampica stavolta sugli specchi del burlesco. Scivolando nel gratuito e sperdendosi nei meandri d’una trama ingarbugliatissima, ma forse anche per questo dando alla sua piccola strenna un gusto pazzerello che può trovare amatori. Lasciando da parte l’ambizione ideologica (simpatizzando per gli indiani, il film rivelerebbe secondo l’autore un’impostazione antinazista!), il racconto ha infatti i colori della fiaba, e un impalco ironico talvolta spassoso» (Grazzini).
 
ore 19.15
L’inchiesta (1986)
Regia: Damiano Damiani; soggetto: Suso Cecchi d’Amico, Ennio Flaiano; sceneggiatura: D. Damiani, Vittorio Bonicelli; fotografia: Franco Di Giacomo; scenografia: Enrico Fiorentini; costumi: Giulia Mafai; musica: Riz Ortolani; montaggio: Enzo Meniconi; interpreti: Keith Carradine, Harvey Keitel, Phyllis Logan, Lina Sastri, Angelo Infanti, John Forgeham; origine: Italia; produzione: Italian International Film, Clesi Cinematografica, Rai; durata:107′
«L’inchiesta è quella che viene a svolgere in Palestina, qualche anno dopo la crocifissione di Gesù, un inviato di Tiberio, Tito Valerio Vauro [Tauro, n.d.r.], per rassicurare l’imperatore che Gesù non è risorto […]. La ricerca di Gesù ad opera di un “laico”. Nell’idea iniziale di Ennio Flaiano e Suso Cecchi d’Amico da cui questo film discende si arriva alla conversione (e così in una sceneggiatura mai realizzata di Valerio Zurlini in cui l’inquisitore-persecutore veniva addirittura assimilato a San Paolo), qui però, anche se non si disegna una vera conversione, si tratteggia, con intelligenza e finezza, non solo il ritratto di un uomo che si interroga con lucida ed ansiosa onestà su quello che vede, ascolta e spesso non capisce, ma anche e soprattutto – attorno a lui e alla sua inchiesta – un ritratto invisibile ma preciso di Gesù […]. Un ritratto che, né agiografico né tradizionale, è il segno più vivo del film perché il testo, scritto con molta attenta misura, giunge ad evocarlo via via anche tra le pagine in apparenza più esteriori del racconto […] facendoci a poco a poco trovare e sentire Gesù in tutti, e non solo evangelicamente: nei credenti e nei non credenti» (Rondi).
 
ore 21.15
Gioco al massacro (1989)
Regia: Damiano Damiani; soggetto e sceneggiatura: D. Damiani, Raffaele La Capria, dalla loro commedia Il genio; fotografia: Gianfranco Transunto; montaggio: Enzo Meniconi; scenografia: Umberto Turco; costumi: Giulia Mafai; musica: Riz Ortolani; interpreti: Elliott Gould, Tomas Milian, Nathalie Baye, Eva Robin’s, Galeazzo Benti, John Steiner; origine: Italia; produzione: Rai, Compagnia Leone Cinematografica; durata: 111′
Il rapporto tra Theo e Clem – due registi cinematografici – non è mai stato dei migliori. Meno geniale e produttivo, il secondo ha sempre sospettato che Theo gli abbia carpito l’idea per un film che a questi fruttò uno dei suoi quattro Oscar, senza parlare di Bella, passata da Clem a Theo. Malgrado la giovinezza in comune, ci sono dunque fra i due ruggine e invidia da un lato, ironia e un po’ di sadismo dall’altro. Eppure, quando si presenta al cancello della splendida villa di Capri, in cui Theo tiene corte imbandita, Clem è bene accolto. Una certa amicizia vi è ancora fra i due, malgrado battibecchi e stilettate. Clem comincia con il sedurre Bella. Theo se ne accorge, ma l’evento non lo scuote. La partita sarà giocata sul piano dell’arte: ognuno dei due (questa la sfida da lui proposta) farà un film sulla vita dell’altro, vivisezionandosi a vicenda, come per colpirsi finalmente a fondo. «Questo film ha una lunga storia: Damiani lo inventa come spunto per il cinema, poi imbarca Raffaele La Capria e lo concreta nella commedia Il genio recitata con impegno virtuosistico da Giorgio Albertazzi. Alla fine la vicenda è tornata allo schermo fino a un certo punto: perché tiene a conservare, con una sorta di alterigia, i suoi quarti di nobiltà teatrali. […] Siamo, insomma, in pieno clima post-pirandelliano da “teatro di pensiero”, con dialoghi di inconsueto spessore al servizio di una densa problematica» (Tullio Kezich). «Il film risente in misura notevole della sua struttura teatrale, e di una certa verbosità che frena la crescita drammatica, ma il nucleo tematico, di ascendenza anche bergmaniana (il parassitismo del creatore, che si ispira, fino a nutrirsene, alle passioni altrui), si scioglie in uno spettacolo concitato e spesso attraente» (Grazzini).
 
domenica 23
ore 17.00
Il sole buio (1990)
Regia: Damiano Damiani; soggetto: D. Damiani; sceneggiatura: D. Damiani, Ennio De Concini; fotografia: Nino Celeste; montaggio: Enzo Meniconi; scenografia: Umberto Turco; costumi: Vittoria Guaita; musiche: Riz Ortolani; interpreti: Michael Paré, Jo Champa, Phyllis Logan, Erland Josephson, Luciano Catenacci, Leopoldo Trieste; origine: Italia; produzione: Cecchi Gori Group, Tiger Cinematografica, Reteitalia; durata: 100′
Ruggero, figlio di un nobile siciliano e cresciuto negli Stati Uniti, torna a Palermo. In un istituto di cui la madre è stata benefattrice conosce la giovane Lucia, spacciatrice e prostituta, figlia di un uomo che ha osato denunciare la mafia e ora è ostracizzato anche dalla famiglia. Per aiutarla, Ruggero la porta in casa come cameriera, ma convincerla a cambiare mentalità è impossibile. «Schivando con buon senso e buon gusto il lieto fine che per un attimo ci faceva temere, dopo un’esplorazione del mondo palermitano che ha qualche momento di efficacia nel descrivere la genesi di un perpetuo sospetto e di una perpetua paura, Damiani lascia i suoi due personaggi ai margini di due funerali: quello trionfale di un mafioso vittima presunta della polizia, quello solitario e dimenticato di due poliziotti massacrati. Ma nonostante le generose intenzioni, la spettacolarizzazione della situazione palermitana che Damiani voleva evitare ritorna attraverso la sentimentalizzazione a tratti anche un po’ grottesca del rapporto tra i due» (Bignardi).
 
ore 19.00
L’angelo con la pistola (1992)
Regia: Damiano Damiani; soggetto: Mario Cecchi Gori, D. Damiani; sceneggiatura: D. Damiani, Dardano Sacchetti, Carla Giulia Casalini; fotografia: Nino Celeste; scenografia: Umberto Turco; costumi: Roberta Guidi Di Bagno; musica: Riz Ortolani; montaggio: Antonio Siciliano; interpreti: Tahnee Welch, Remo Girone, Eva Grimaldi, Nicola D’Eramo, Franco Scaccia, Sergio Fiorentini; origine: Italia; produzione: Cecchi Gori Group, C.G. Tiger Cinematografica, Penta Film, Silvio Berlusconi Communications; durata: 117′
Lisa, cameriera, da bambina ha assistito alla strage della propria famiglia. Trovata in metropolitana la pistola di un balordo, inizia una crociata uccidendo Velasco, avvocato della mafia. Dopo averla scoperta, il commissario Cattani, deluso dalla legge che non punisce i delinquenti, decide di collaborare con lei: rimanda le dimissioni e diventa un giustiziere, indicando gli obiettivi alla ragazza-killer, con cui inizia anche una relazione. «L’angelo con la pistola esce nelle sale proprio in coincidenza con la “sparata” antigarantista di Andreotti (“Basta amnistie e delinquenti scarcerati, mandiamo i mafiosi su un’isola”). Chissà se il supersbirro deluso Remo Girone avrebbe cambiato idea dopo aver ascoltato la requisitoria del presidente del consiglio uscente. […] Un occhio a Nikita di Luc Besson e l’altro a L’angelo della vendetta di Abel Ferrara, Damiano Damiani mette il suo mestiere di regista d’azione con retro-impegno civile al servizio di una storia che non deve averlo appassionato granché» (Anselmi).
 
ore 21.15
Assassini dei giorni di festa (2002)
Regia: Damiano Damiani; soggetto: D. Damiani, dal romanzo omonimo di Marco Denevi; sceneggiatura: Gianpaolo Serra, Giovanni Ammendola; fotografia: Sandro Grossi; scenografia: Amedeo Mellone; costumi: Valter Azzini; musica: Beppe D’Onghia; montaggio: Enzo Meniconi; interpreti: Carmen Maura, Sara D’Amario, Riccardo Reim, Domenico Fortunato, Leonardo Ferrantini, Gianmarco Giovi; origine: Italia/Spagna; produzione: Zeal Films, Fortuna Films; durata: 98′
Buenos Aires, 1955: una compagnia di attori da strapazzo, guidata da Illuminata, cerca di guadagnarsi da vivere presentandosi addolorati alle veglie funebri di sconosciuti. L’occasione d’oro arriva quando si installano nella villa del defunto e solitario imbalsamatore Lalanne, fingendo di esserne parenti. Per meglio ingannare il giovane avvocato Valerio, Lucrezio, con qualche impaccio, si traveste da donna e si fa passare per Esmée, erede ed amante di Lalanne. «In una conversazione di molti anni fa con il collega Osvaldo Soriano, lo scrittore argentino Marco Denevi dichiarava che, di tutti i suoi libri, il più adatto a una versione cinematografica era Assassini dei giorni di festa (da noi lo ha tradotto Sellerio), amara sarabanda su un gruppo di teatranti che, alla fine del capocomico, si trasforma in gruppo di prefiche. L’equipe sognata da Denevi era Fellini alla regia e un cast con Mastroianni, Peter, Ustinov, Dominique Sanda ed Eddie Murphy. Nella coproduzione italo-spagnola diretta dall’ottantenne Damiani, invece, abbiamo Carmen Maura che spicca in un discreto cast, ma la realizzazione è sciattissima. Seguiamo il gruppo di guitti che si installa in casa di un defunto senza eredi, mentre il giovane efebo della compagnia (Sara D’Amano) si traveste da donna spacciandosi per la nipote straniera del padrone di casa. II film ha i ritmi della pochade senza ritmo. Un’operazione di cui sfugge il senso» (Morreale).
 
 

 

 

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