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Ricordando David Maria Turoldo
29 Marzo 2012 - 29 Marzo 2012
A vent’anni dalla morte rendiamo omaggio a un insolito cineasta, di cui non troverete traccia nei dizionari perché il suo unico film (un film-mondo che racchiudeva tutto il suo universo esistenziale e sentimentale) è stato diretto e firmato da un altro regista, anche lui non meno occasionale, avendo legato la sua vita e il suo nome al teatro. David Maria Turoldo e Vito Pandolfi, un’improbabile coppia che, partendo da posizioni distanti, se non inconciliabili, ci hanno regalato, agli inizi degli anni Sessanta, uno dei primi atti d’amore per la civiltà contadina destinata di li a poco a scomparire e a trovare altri, degnissimi, cantori. Un film riemerso dal nulla di un ingiusto oblio e ormai assurto a snodo fondamentale del versante più periferico della nostra cinematografia, lontano da Roma e da Cinecittà, più attento alla realtà locale, al microcosmo che diventa simbolo di una condizione umana reiterata nel tempo e drammaticamente infranta.
Vogliamo ricordare Turoldo poeta con le parole del suo grande amico Gianfranco Ravasi: «È facile sentire nei suoi versi il sapore delle zolle friulane delle sue origini e sognare coi suoi occhi infantili e chiari davanti all’affresco del sacrificio di Isacco dipinto nella parrocchiale della sua piccola Coderno. Oppure, percorrendo soprattutto le strofe della maturità, intuire il rigore magmatico (un ossimoro adatto alla sua poetica) della sua mente addestrata in giovinezza alla filosofia, alla scuola di Gustavo Bontadini. È difficile restare indifferenti al suo delicato amore per la Vergine Maria, tra i cui Serviti aveva scelto la sua strada religiosa. Oppure non fremere con lui nella lotta antifascista, allorché con gli amici stendeva le pagine di quel foglio clandestino dal titolo emblematico “L’Uomo”, o ancora non partecipare al suo sdegno per l’ingiustizia, rifiutando ogni genuflessione nei confronti del potere. Nelle sue righe poetiche disseminate in anni e anni di attività si riverberano i bagliori delle sue prediche nel Duomo di Milano, l’appassionata partecipazione al sogno di don Zeno e della sua Nomadelfia, l’orizzonte luminoso delle amicizie umili e grandi, la sua parola detta e scritta attraverso tutte le vie della comunicazione, giornalistica, teatrale, televisiva e persino cinematografica col film Gli ultimi. Ecco poi balenare l’ardore conciliare, il ritiro per nulla eremitico a Sotto il Monte, il suo costante schierarsi, magari sporcandosi le mani e la fama nel “grumo nero” della storia, alla ricerca non certo di un consenso né di un puro e semplice dissenso ma solo di un senso, come padre David amava ripetere a suggello di quegli anni».
 
ore 21.00
Gli ultimi (1962)
Regia: Vito Pandolfi; soggetto: David Maria Turoldo; sceneggiatura: D. M. Turoldo, V. Pandolfi, con la collaborazione di Mario Casamassima; fotografia: Armando Nannuzzi; scenografia: Bruno Vianello, Gino Persello; coordinamento musicale: Carlo Rustichelli; montaggio: Jolanda Benvenuti; interpreti: Adelfo Galli, Lino Turoldo, Margherita Tonino, Riedo Puppo, Vera Pescarolo, Elio Ciol; origine: Italia; produzione: Le Grazie Film; durata: 90′
«La dura vita di una famiglia di poveri contadini in un paesino della bassa friulana all’inizio degli anni ’30. La vicenda ha al centro il piccolo Checo (A. Galli, di Nomadelfia) con la sua infelicità di bambino che – in quanto diverso dagli altri per intelligenza, sensibilità, fantasia – è sbeffeggiato dai coetanei (lo chiamano “lo spaventapasseri”), incompreso dagli adulti. Tratto dal racconto autobiografico Io non ero un fanciullo (inedito fino al 1980) di padre David Maria Turoldo (1916-92), poeta e saggista, e girato interamente a Coderno (Udine), suo paese natale, con gli abitanti come attori, è l’austera rievocazione di una condizione umana e sociale (il mondo contadino che la nascente civiltà industriale pone in secondo piano e trasforma), la proiezione di una solitudine individuale (e spirituale) sullo sfondo di un’altra solitudine collettiva (e materiale). La rinuncia alla presa diretta (difficile in quel periodo), il doppiaggio in un italiano letterario, il ricorso alla voce narrante qua e là ridondante, la scelta del piccolo protagonista di una bellezza quasi aristocratica (in contraddizione col nomignolo beffardo) indeboliscono il film che, comunque, rimane un’opera unica nel panorama di quegli anni. L’insuccesso commerciale ebbe molte cause tra cui il boicottaggio da parte delle autorità ecclesiastiche che, non vedendo di buon occhio il sodalizio di Turoldo, frate scomodo, con Pandolfi, intellettuale laico e marxista, esclusero il film dal circuito delle sale da loro controllate. C’è una ragione più profonda: fu un film intempestivo, uscito troppo presto. Soltanto nel decennio successivo il legame tra cultura e mondo contadino fu approfondito, magari colorandosi di rimpianto e nostalgia. Il successo di L’albero degli zoccoli (1978) ne è un sintomo. Del film, cui contribuisce assai il suggestivo bianconero di Armando Nannuzzi, esistono copie con 2 finali diversi» (Morandini). «Storie di bimbi hanno commosso tanti artisti. Esse nella letteratura delinearono molte figure indimenticabili. Due mi sono particolarmente care per motivi diversi, e che non è ora il momento di esporre: il Moscardino di Enrico Pea e Poil de carotte di Jules Renard.
Il film dal titolo
Gli ultimi, su soggetto di Padre Turoldo, attuato per la regia di Pandolfi, presenta un bimbo. Dirò con pochissime frasi la mia commozione: è forte quanto quella provata alla lettura di Poil de carotte e di Moscardino. La suggestione cinematografica è, d’altra parte, questa volta solo paragonabile a quella da me provata guardando L’uomo di Aran [Robert Flaherty] o Vita di O-Haru donna galante [Kenji Mizoguchi]. Sarà la solitudine stupenda del Friuli nella quale ho vissuto nei primi due anni della prima guerra, alternandone il soggiorno con il Carso, sarà l’arte del bimbo incredibilmente spontanea e vera, sarà il modo semplice e assoluto di mostrare i terribili simboli della morte e della fame, so che si tratta di un film indimenticabile, infinitamente più bello dei pochi che quest’anno ho ammirato, si tratta dell’unico film di quest’anno unicamente dettato da schietta e alta poesia» (Ungaretti).
Copia restaurata dalla Cineteca del Friuli

 

 

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