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Paesaggi con figure. Viaggio in Italia attraverso il road-movie
07 Giugno 2012 - 10 Giugno 2012
La rassegna, a cura di Maria Coletti, prova a raccontare in maniera diversa la storia e la geografia del nostro paese, nel corso del tempo, attraverso il filo rosso del road-movie, genere poco frequentato dal cinema italiano: i film selezionati sono una sorta di bussola per orientarci nelle trasformazioni epocali e nei mutamenti, anche antropologici ed esistenziali, che hanno toccato l’Italia dal dopoguerra ad oggi. Dal classico Paisà – in fondo un road-movie ante litteram – alla commedia all’italiana e ai film d’autore, per arrivare all’alba del terzo millennio con film e sguardi sempre più centrifughi e nomadi. Dalla Storia alle storie, lo spazio prende il sopravvento sul tempo, l’identità si perde nella molteplicità del reale, come le immagini in corsa dal finestrino di un treno.
 
 “…porto il nome di tutti i battesimi
ogni nome il sigillo di un lasciapassare
per un guado una terra una nuvola un canto
un diamante nascosto nel pane
per un solo dolcissimo umore del sangue
per la stessa ragione del viaggio viaggiare…”
Fabrizio De André, Khorakhané (A forza di essere vento)
 
giovedì 7
ore 17.00
Paisà (1946)
Regia: Roberto Rossellini; soggetto: Sergio Amidei, Federico Fellini, Marcello Pagliero, Victor Alfred Haynes, R. Rossellini; sceneggiatura: S. Amidei, F. Fellini, R. Rossellini; voce narrante: Giulio Panicali; fotografia: Otello Martelli; montaggio: Eraldo Da Roma; musica: Renzo Rossellini; interpreti: Carmela Sazio, Dots Johnson, Maria Michi, Harriet Medin, William Tubbs, Dale Edmonds; origine: Italia; produzione: O.F.I.; durata: 133′
Attraverso sei episodi indipendenti l’uno dall’altro, il film rievoca l’avanzata delle truppe alleate in Italia. Si inizia con un episodio dello sbarco in Sicilia, dove una ragazza e un soldato americano vedono troncare sul nascere la loro storia d’amore. Segue una scena a Napoli: i protagonisti sono un soldato afroamericano e un bambino che lo deruba. Inseguendolo, il bambino scopre la vita misera che conduce con la famiglia e decide di non denunciarlo. Il terzo episodio si svolge a Roma, dove un soldato incontra una prostituta, raccontandole di una ragazza che aveva conosciuto tempo prima. L’uomo non sa che quella giovane di cui serba il ricordo è proprio lei. Il quarto rievoca le drammatiche giornate della liberazione di Firenze, dove una donna cerca un suo amico pittore, ora capo partigiano. Il quinto si svolge in Romagna nella riposante quiete di un piccolo convento sulla linea gotica, sconvolto dagli eventi. L’ultimo, ambientato nel Delta del Po, esalta la coraggiosa opera di partigiani italiani nelle paludi della Valle padana. «[Il film] rispecchia dopo la tragedia della “città aperta”, quella di tutto un popolo. I sei episodi raccontano altrettanti incontri tra soldati americani che risalgono la penisola, combattendo contro i tedeschi e italiani. […] Di “paisà in paisà” […] l’obiettivo corre su di un paesaggio a tratti rovente di guerra, a tratti gravido di dissoluzione e di disperazione […]. Le spiagge della Sicilia, le macerie di Napoli, le vie del dopoguerra romano, le piazze di Firenze […] la pianura del delta padano […] costituiscono lo sfondo di vicende concise esemplari: Robert e Carmela, in Sicilia, nella notte dello sbarco; il negro Joe e lo scugnizzo a Napoli; la notte romana di Fred in casa della prostituta Francesca; Massimo e Harriet per le vie deserte di una Firenze nelle ultime ore dell’occupazione tedesca; il pastore protestante e l’israelita d’America […], la guerriglia, le fughe, gli eccidi nei canali alle foci del Po. […] Tanta foga nel ritagliare figure e personaggi da una cronaca ancora viva negli occhi e nell’animo degli italiani, tanta avidità di scoprire, di raccontare, d’immergersi nelle dimensioni reali della nostra esperienza quotidiana e della nostra vita vissuta, sembrano suggellare la validità profonda delle aspirazioni del cinema e della cultura d’opposizione, e condurre a un approdo libero le prime rotture, i primi scandali antiretorici di De Sica e di Visconti» (Lizzani).
 
ore 19.20
Il federale (1961)
Regia: Luciano Salce; soggetto: Castellano e Pipolo; sceneggiatura: Castellano e Pipolo, L. Salce; fotografia: Erico Menczer; montaggio: Roberto Cinquini; scenografia: Alberto Boccianti; costumi: Giuliano Papi; musica: Ennio Morricone; interpreti: Ugo Tognazzi, Georges Wilson, Gianrico  Tedeschi, Elsa Vazzoler, Mireille Granelli, Stefania Sandrelli; origine: Italia; produzione: D.D.L.; durata: 100′
Durante l’occupazione tedesca di Roma, ad Arcovazzi, un graduato delle brigate nere, zelante ed ambizioso, viene affidato il compito di catturare il professor Bonafé, un eminente filosofo antifascista, per farne un forzato propagandista della pericolante repubblica sociale. Ma se l’arresto del mitissimo professor Bonafé è un’impresa facile, il viaggio di ritorno a Roma dal natale paesino abruzzese dov’egli s’era rifugiato presenta non poche difficoltà. Attraverso mille peripezie, pericoli e strani incontri, il fascista e l’antifascista si perdono e si ritrovano. Insieme, giungono alla periferia della capitale. È il 4 giugno del 1944. Arcovazzi, indossata una divisa da federale trovata per caso alle porte della città e ignaro del fatto che Roma è stata occupata dagli Alleati, avanza tranquillo per la strada, ma è subito afferrato e malmenato dalla folla. A salvarlo è il professor Bonafé, il quale gli offre la propria giacca di borghese, quasi a suggellare l’amicizia, inconsueta e rara, che le vicissitudini sopportate insieme hanno fatto nascere fra due uomini tanto diversi per convinzioni, temperamento ed educazione. «Se i film come Tiro al piccione, e anche in parte Un giorno da leoni, esigono per ragioni di chiarezza una valutazione severa che tenga conto però di certe sollecitazioni d’avvio, di certe intenzioni, più o meno generose, dei loro autori, quelli come Il federale richiedono invece, per ragioni d’onestà, un tipo di discorso completamente diverso, duro e inequivoco. Se talune opere del “nuovo corso” possono favorire l’impressione di un compromesso non sempre persuasivo fra le necessità dello spettacolo e la sollecitazione delle idee (ma il discorso sulla produzione e sul professionismo, interessante e da farsi, non esaurisce affatto i problemi del cinema italiano contemporaneo), i film come quello di Salce sono qualcosa di più e di peggio di semplici cascami di una “tendenza” fortunata: Il federale infatti è sì un mediocre filmetto di intrattenimento, ma interamente giocato, e per questo lo si considera qui, sul piano di un equivoco e mistificatorio compromesso fra fascismo e antifascismo, con una esplicita riabilitazione del primo a danno del secondo. […] Il film di Salce va segnalato […] per l’abilità con cui sa propinare al pubblico il suo veleno, distillandolo goccia a goccia nella facilità delle sue scenette e delle sue figurine, facendo leva sugli stimoli più sgradevoli e deteriori dell’antico e sempre giovane qualunquismo nazionale» (Ferrero).
 
ore 21.15
La marcia su Roma (1962)
Regia: Dino Risi; soggetto e sceneggiatura: Age, Furio Scarpelli, Ruggero Maccari, Ettore Scola, Sandro Continenza, Ghigo De Chiara; fotografia: Alfio Contini; montaggio: Alberto Galliti; scenografia e costumi: Ugo Pericoli; musica: Marcello Giombini; interpreti: Vittorio Gassman, Ugo Tognazzi, Roger Hanin, Angela Luce, Gérard Landry, Mario Brega; origine: Italia; produzione: Fair Film, Orsay Film; durata: 94′
Negli anni del primo dopoguerra un reduce che vive di espedienti, Domenico Rocchetti, incontra un suo capitano che lo invita ad aderire al movimento fascista. Durante un tafferuglio in un centro rurale, Rocchetti chiede aiuto a un suo ex commilitone, Umberto Gavazza. Ma il cognato di quest’ultimo, acceso antifascista, li mette alla porta ambedue. A causa di una nuova baruffa sorta per aver voluto sostituire gli spazzini in sciopero, vengono messi in prigione e poi liberati da una decisa azione degli squadristi. Dopo aver partecipato a parecchie “azioni punitive”, anche Rocchetti e Gavazza si preparano alla Marcia su Roma. Requisiscono un’automobile per raggiungere i camerati, ma vengono sconfessati perché il proprietario è un sostenitore del movimento fascista. In seguito a una scaramuccia scompaiono alle porte di Roma. «La marcia su Roma si affida alla formula dell’accoppiata di due ritratti opposti e complementari, portata al successo da La grande guerra; tra i due interpreti prevale Tognazzi, che dà vita alla robusta macchietta di un infingardo contadino disposto a ogni ribalderia ma non a lasciarsi turlupinare dalla demagogia mussoliniana» (Spinazzola). «Quella che avrebbe potuto essere una chiave satirica incentrata su un motivo inedito […] s’impiglia in un estenuante repertorio umoristico che […] raccoglie gags e barzellette. L’evoluzione dei personaggi è scontata […] come sono preventivabili le traversie che […] attraverseranno. La ricetta […] lascia trapelare la scoperta e dosata premeditazione degli autori. L’industria cinematografica italiana la sua esca tentatrice l’ha scovata in certe storie dal risvolto civile; guai, però, a confondere le apparenze con il succo del film» (Argentieri).
   
venerdì 8
ore 17.00
Il sorpasso (1962)
Regia: Dino Risi; soggetto e sceneggiatura: D. Risi, Ettore Scola, Ruggero Maccari, da una storia di Rodolfo Sonego; fotografia: Alfio Contini; montaggio: Maurizio Lucidi; scenografia e costumi: Ugo Pericoli; musica: Riz Ortolani; interpreti: Vittorio Gassman, Jean-Louis Trintignant, Catherine Spaak, Claudio Gora, Luciana Angiolillo, Luigi Zerbinati; origine: Italia; produzione: Fair Film, Incei Film, Sancro Film; durata: 108′
Bruno, un presuntuoso giovanotto motorizzato, incontra casualmente un giovane universitario, timido e inibito, e lo trascina con sé durante un lungo ferragosto. L’aggressività, il volgare e dirompente saper vivere di Bruno respingono e insieme affascinano lo studente. Bruno vive di espedienti, è separato dalla moglie, sua figlia è una ragazza che si appresta a sposare un anziano industriale. Vicende e incontri vanno e vengono, legati dal lungo filo della mania automobilistica di Bruno. «Il sorpasso, il viaggio cinematografico, a tratti antropologico, di Dino Risi attraverso l’Italia del boom economico e del miraggio del benessere, l’Italia delle vacanze e delle soste agli autogrill, delle canzonette, dei clacson e delle auto come status symbol, dei risparmi per la macchina e per le ferie, l’Italia dei Bruno Cortona e dei Roberto Mariani. […] Lo sguardo di Risi è clinico (non per niente studiò medicina), radiografico, caustico, tra Checov e Billy Wilder, disincantato e distaccato, pedagogico ma senza tirate moralistiche, asettico nel cogliere a caldo i mutamenti della società dell’epoca. Società condensata in qualche modo nel finale del film: muoiono i Roberto Mariani, muore l’Italia con principi e valori del passato, sopravvivono i Bruno Cortona, sopravvivono gli arrivisti, cialtroni, infingardi, arrampicatori sociali del boom economico, e restano a guardare incuriositi tutti gli altri, impassibili testimoni di un’epoca che si trasforma, senza fare niente» (Davide De Lucca).
 
ore 19.00
Morire gratis (1966-67)
Regia: Sandro Franchina; soggetto e sceneggiatura: S. Franchina; fotografia: Guido Cosulich; musica: Stefano Torossi; interpreti: Franco Angeli, Karen Blanguernon, Isabel D’Avila, Mario Pisu, Adriano Amidei Migliano, Sandro Brunori; origine: Italia; produzione: Fedel Film; durata: 72′
È lunga la strada che porta da Roma a Parigi. Franco, artista impotente e alcolizzato, la percorre di corsa con la sua automobile per trasportare la scultura di una lupa capitolina che nasconde della droga. Per strada incontra Michelle, una ragazza francese che diventa sua compagna d’avventura in un viaggio insensato e frenetico. Documento di una generazione irrequieta e allo sbando, Morire gratis potrebbe essere una sorta di Easy Rider italiano girato con due anni di anticipo rispetto al film di Hopper, così come è in anticipo sul ’68, di cui nel film si avverte ampiamente l’imminente avvento. Ed è l’unico lungometraggio di Sandro Franchina, artista poliedrico e enfant prodige del cinema italiano (era lui il bimbo protagonista di Europa ’51 di Roberto Rossellini). «Curioso road movie in anticipo sui tempi, anche se calato in un’atmosfera d’avanguardia anni Sessanta, con il frequente ricorso a voci fuori campo e musica sarcastiche o stranianti. Il ritratto del maledetto senza perché, dell’annoiato post-Sartre e post-Camus, sa certo di letteratura: ma colpisce, oggi, il modo di raccontare fenomenologico, aspro, asciutto, che rischia anche la lungaggine per far entrare lo spettatore in una dimensione vagamente allucinata» (Mereghetti).
Copia ristampata a cura della Cineteca Nazionale
 
ore 21.00
Bianco, rosso e Verdone (1981)
Regia: Carlo Verdone; soggetto e sceneggiatura: Leo Benvenuti, Piero De Bernardi, C. Verdone; fotografia: Luciano Tovoli; montaggio: Nino Baragli; scenografia: Carlo Simi; costumi: Antonio Palombi; musica: Ennio Morricone; interpreti: C. Verdone, Lella Fabrizi, Mario Brega, Irina Sanpiter, Angelo Infanti, Milena Vukotic; origine: Italia; produzione: Medusa; durata: 115′
È tempo di elezioni politiche e gli elettori, che per ragioni di lavoro hanno lasciato il loro comune di residenza, vi ritornano per votare. Da Monaco di Baviera parte, con la sua auto sportiva, il materano Pasquale, che, sposato con una tedesca e costretto a subire la sua orrenda cucina, già pregusta una rimpatriata coi fiocchi. Da Torino parte per Roma, con i due figli e la moglie Magda, una donna piemontese, l’insopportabile Furio, un ometto pignolo e senza fantasia, abituato a programmare al secondo tanto il viaggio in auto, quanto la vita propria e quella dei familiari. Da Verona, dov’è andato a prendere sua nonna – una donna obesa, piena d’acciacchi, ma ricca di humour -, rientra nella capitale Mimmo, un giovanottone ingenuo con il cervello di un bambino. Durante il viaggio, Pasquale viene sistematicamente spogliato di tutto – radio, regali, auto – per cui, arrivato il momento di votare, saprà soltanto sfogare la sua rabbia con le parolacce. Furio, invece, sarà a tal punto riuscito a stancare la moglie con la sua pignoleria, da farle accettare la corte di uno sconosciuto. Mimmo, infine, avrà un’infelice avventura con una prostituta d’albergo, e, soprattutto, farà arrabbiare la nonna con le sue esagerate e sciocche premure. «Il secondo film di Verdone come regista ripropone lo schema di Un sacco bello: tre variazioni (rispettivamente in chiave tragicomica, sentimentale e grottesca) sul tema del personaggio verdoniano per eccellenza, lo “sfasato”, perennemente in ritardo rispetto al mondo e – più ancora – a se stesso, prigioniero di abitudini assurde che ne stritolano i residui di umanità. Il trittico di maschere (cui Verdone ritornerà, anni dopo, in Viaggi di nozze) assicura una piacevole varietà di accenti che non mina la compattezza della composizione, ma se Furio permette al mattatore di scatenarsi, ottenendo al tempo stesso un’eccellente resa dal cast di contorno (in cui spicca un’insolita Vukotic), gli altri due bozzetti ristagnano un po’, ora per la melassa incombente (malgrado la bonaria ironia della sora Lella), ora per la sensazione di ascoltare una barzelletta interminabile e nemmeno troppo divertente (fortunatamente riscattata da un epilogo esplosivo)» (Stefano Selleri).
 
sabato 9
ore 17.00
Stesso sangue (1988)
Regia: Sandro Cecca, Egidio Eronico; soggetto e sceneggiatura: S. Cecca, E. Eronico; fotografia: Roberto Meddi; montaggio: Anna Napoli; scenografia: Giuseppe Gaudino; musica: Penguin Cafè Orchestra, This Mortal Coil; interpreti: Daniele Nuccetelli, Alessandra Monti, Rick Hutton, Enrico Salvatore, Maria Fiore, Gianfranco Amoroso; origine: Italia; produzione: Libra Film; durata: 94′
Un fratello e una sorella rimasti orfani si associano ad un inglese e formano una gang di rapinatori, ma il loro futuro è il fallimento. «Diciamolo subito: Stesso sangue si adegua sfrontatamente ai canoni americani del cinema on the road che assomiglia il vivere a un perenne girovagare fra quinte violente e derelitte, dove ogni incontro è una pausa lungo la fuga. Pur citando con onestà Bonnie and Clyde, il film ricava tuttavia dal suo impianto iperrealista un che di allucinatorio proprio degli universi slabbrati e fatiscenti in cui i paesaggi industriali, i ruderi abbandonati, i silenzi della provincia, l’impassibilità stessa della natura rispecchiano il disfarsi delle coscienze. Mentre sarebbe inopportuno sovraccaricare di significati metaforici un racconto difettoso nei nessi, incerto fra il sentimentale e il grottesco, percorso da figure che soccombono al proprio valore simbolico, e recitato da attori per la maggior parte poco maturi, il film è chiaramente raggiunto nelle scenografie di Giuseppe Gaudino, inventate o trovate nel Basso Molise per dire il degrado planetario e fare da contrappunto al delirio del protagonista, allo sgomento della sorellina, all’eccentricità degli altri emarginati. Stesso sangue è, per concludere, un film malfermo, ma i suoi autori vanno seguiti. Almeno finché cercano nelle immagini d’un vivere agro e balordo la chiave del loro disagio generazionale» (Grazzini).
 
ore 19.00
Turné (1990)
Regia: Gabriele Salvatores; soggetto: Francesca Marciano, Alessandro Vivarelli, Fabrizio Bentivoglio, Paolo Virzì; sceneggiatura: F. Marciano, F. Bentivoglio, G. Salvatores; fotografia: Italo Petriccione; montaggio: Nino Baragli; scenografia: Marco Dentici; costumi: Francesco Panni; musica: Roberto Ciotti; interpreti: Diego Abatantuono, Laura Morante, Fabrizio Bentivoglio, Luigi Montini, Ugo Conti, Nini Salerno; origine: Italia; produzione: Cecchi Gori Group, A.M.A. Film, Reteitalia; durata: 93′
Due attori trentacinquenni, Dario e Federico, amici fin dai tempi della scuola, partono in tournée dalla Puglia verso la Romagna con una compagnia che mette in scena Il giardino dei ciliegi di Anton Cechov. Dario, estroverso e pieno di ambizioni cinematografiche, tenta in ogni modo di spronare Federico, depresso per la fine della sua relazione con la speaker radiofonica Vittoria, il quale giorno dopo giorno sembra chiudersi di più in sé, perdendo interesse per tutto ciò che lo circonda, compreso lo spettacolo. Quel che non sa è che, in realtà, Vittoria lo ha lasciato proprio per Dario, che ora avrebbe lo spiacevole compito di raccontare la verità all’amico di sempre. L’arrivo di Vittoria, indecisa tra i due uomini, rischia di far esplodere il conflitto. «Film di situazioni psicologiche che spesso hanno il loro controcanto nei paesaggi, Turné si segue con piacere. È un altro road-movie di struttura più solida rispetto a Marrakech Express, con meno divagazioni e una sepolta ma fertile vena d’ironia» (Grazzini). «Bisogna riconoscerlo: al suo quarto film Gabriele Salvatores uno stile cinematografico se l’è già costruito. Stacchi musicali ad effetto, un montaggio serrato, un certo incantamento “on the road”, presa diretta e una predilezione per le storie d’amore e d’amicizia. Chi ha amato Marrakech Express non dovrebbe perdersi questo Turné, anche se la ciambella risulta stavolta un po’ meno saporita […] pur continuando a strizzare l’occhio a certo cinema americano, soprattutto nell’impasto tra le svisate blues di Roberto Ciotti e le fascinazioni fotografiche del viaggio» (Anselmi).
 
ore 21.00
Verso sud (1992)
Regia: Pasquale Pozzessere; soggetto e sceneggiatura: P. Pozzessere; fotografia: Bruno Cascio; montaggio: Carlo Valerio; scenografia: Cinzia Di Mauro; musica: Domenico Scuteri, Corrado Rizza; interpreti: Antonella Ponziani, Stefano Dionisi, Pierfrancesco Pergoli, Irene Grazioli, Tito Schipa Jr., Luigi Santamaria; origine: Italia; produzione: Demian Film; durata: 88′
Nel degradato ambiente che circonda la stazione Termini vive Paola uscita da poco dal carcere: le mancano sempre i soldi per i piccoli acquisti, e si prostituisce occasionalmente per mangiare e fare qualche regaluccio al figlio Chicco, due anni, che un istituto tiene in custodia essendo lei inaffidabile come madre. Nello stesso ambiente vive Eugenio, che ruba le elemosine nelle Chiese, e frequenta amici ladruncoli e, pur non drogandosi, sovente abbonda con l’alcool. La figura umana e comprensiva di un sacerdote, che lo sorprende a rubare e non lo denuncia incoraggiandolo a tentare una svolta, sembra fornire ad Eugenio un impulso positivo, che si rafforza allorché, dopo un fortuito incontro alla mensa della Caritas con Paola, tenta di costruirsi con lei una vita “normale”. Eugenio trova un ricovero nell’attico di una fabbrica sotto sequestro e un lavoretto come raccoglitore di cartone; Paola, approfittando di un incendio e relativa confusione, rapisce il figlio. Ma l’arresto di un loro amico che conosce il nascondiglio atterrisce Paola al punto da convincere Eugenio a rubare un’auto e a portare l’improvvisata “famiglia” in Puglia, dove ha un amico che lavora a un Luna Park. «Storia semplice a due personaggi con poche figure di contorno; attori giovani e poco noti seppur con qualche esperienza di teatro e televisione; l’ambientazione di una Roma degradata, desolata e marginale, colta con lo sguardo attento e fresco di un documentarista senza concessioni al folklore populista né manierismi pasoliniani; un’escursione finale – fuga e, insieme, ricerca – verso il Sud attraverso la luce dorata dei paesaggi pugliesi. […] È un film romantico; un racconto di sentimenti in cui si potrebbero cogliere gli echi di un certo verismo poetico e, specialmente verso l’epilogo, di un certo crepuscolarismo “maledetto” di film hollywoodiani con gli amanti in fuga» (Morandini).
 
domenica 10
ore 17.00
Compagna di viaggio (1996)
Regia: Peter Del Monte; soggetto: P. Del Monte, Mario Fortunato; sceneggiatura: Gloria Malatesta, P. Del Monte, Claudia Sbarigia; fotografia: Beppe Lanci; montaggio: Simona Paggi; scenografia: Mario Rossetti; costumi: Paola Marchesin; musica: Dario Lucantoni; interpreti: Michel Piccoli, Asia Argento, Lino Capolicchio, Silvia Cohen, Max Malatesta, Maddalena Maggi; origine: Italia; produzione: Alia Film, Istituto Luce; durata: 109′
Una ragazza di circa vent’anni, Cora, dal carattere ribelle e indipendente, vive da sola e senza alcun affetto. Un giorno le viene offerto uno strano lavoro: deve assistere un vecchio professore in pensione che spesso ha vuoti di memoria, ma senza che lui se ne accorga. La ragazza segue il professore in una sorta di vagabondaggio che li porterà prima a Carpi, poi a Forte dei Marmi, quindi per le campagne dell’Italia centrale, un po’ in corriera e un po’ a piedi, perdendosi e ritrovandosi. «Che bella notizia un bel film. Soprattutto se, come Compagna di viaggio di Peter Del Monte, selezionato da Cannes per Un certain regard, riesce a cancellare il ricordo del fallimento del film precedente, Tracce di vita amorosa, senza tuttavia tradirne la scelta di fondo: che è poi il leitmotiv del cinema di Del Monte, la ricerca dell’ineffabile, del non detto nei rapporti tra le persone. Ed è anche bello che, a ventun anni dal suo debutto con Irene Irene, Del Monte abbia ancora voglia di parlare della condizione dei vecchi – mettendola questa volta a contrasto con l’originale e intenso ritratto di una giovanissima senza tetto né legge. In verità è il ritratto della ragazza Cora, disegnato con grande intensità e naturalezza da Asia Argento, l’elemento portante del film» (Bignardi). «Un vecchio professore e una ragazza, un’esistenza conclusa e una vita sconnessa, un viaggio senza itinerario e senza scopo lungo le vie della memoria perduta e dell’esperienza mancante, attraverso persone e paesaggi d’una Italia mai vista (non tragica né ridicola, non devastata né intatta, squallida per una povertà diversa dalla carenza di soldi) fotografata benissimo da Beppe Lanci. L’incontro di due diversi smarrimenti, il contrasto tra indifferenza e impazienza, approda a una specie di affetto. Dopo oltre cinque anni di silenzio, Peter Del Monte, 53 anni, torna con un film che conferma la sua integrità d’artista e mostra l’evoluzione delle sue qualità di narratore di psicologie, di regista denso e delicato, di ottimo direttore d’attori: in Compagna di viaggio Michel Piccoli (molto ben doppiato da Francesco Carnelutti) e Asia Argento raggiungono una naturalezza senza improvvisazioni né sciatterie, una bravura ed eloquenza notevoli» (Tornabuoni).
 
ore 19.00
Le acrobate (1997)
Regia: Silvio Soldini; soggetto e sceneggiatura: S. Soldini, Doriana Leondeff; fotografia: Luca Bigazzi; montaggio: Claudio Cormio; scenografia: Mario Rossetti; costumi: Annabruna Gola; musica: Giovanni Venosta; interpreti: Licia Maglietta, Valeria Golino, Mira Sardoc, Angela Marraffa, Manrico Gammarota, Fabrizio Bentivoglio; origine: Italia; produzione: Aran Film, Vega Film, in collaborazione con Megaset, Ssr/Tsi (Televisione Svizzera Italiana); durata: 122′
Un dentino spedito in una lettera fa incontrare due donne che non si conoscevano e che vivono in due città diverse, una a Treviso, l’altra a Taranto. Da Treviso, Elena, che lavora in una fabbrica di cosmetici, arriva a Taranto per cercare di chiarire i misteri che circondano la morte di Anita, un’anziana signora che lei aveva accudito per un certo periodo, dopo averla investita una notte con la sua automobile. Qui entra in contatto con Maria, un’amica di Anita, che è commessa in un supermercato, è sposata ed ha una figlia piccola. Dopo alcuni approcci improntati a diffidenza e incertezza, le due donne si separano, anche perché tra Maria e Anita, in realtà, non c’è alcun legame. Ma un giorno Maria scrive ad Elena, ed Elena risponde invitando l’altra a Treviso. Qui, come legate da un filo magico, le due donne cominciano a conoscersi meglio, finché, spinte dall’insistenza della piccola Teresa, capiscono di avere entrambe una grande voglia di interrompere la solita routine e decidono di partire per le montagne.. «Un dentino cade in un bicchiere. Un’arancia rotola sul fondo di una macchina. Dettagli. Grammatica tenera dello sguardo. Un incontro scombina le geometrie della vita, che devia e si riorganizza come in un grande chiasmo: la donna del nord incontra la vecchia slava, che ha incontrato la donna del sud; Elena andrà a cercare Maria, Maria scriverà (una lettera scritta a mano che farà l’effetto di una bomba sulla scrivania tecnologica dell’altra) e poi si avventurerà fino a Treviso, da Elena. Da nord a sud, da sud a nord. È l’ultima calda ingegneria narrativa di Silvio Soldini, Le acrobate. Donne che giocano leggere sul vuoto. Loro, piene di una relazione pericolosa, gratuita, disordinante. […] Le due donne inventano il loro spazio in un viaggio segreto, straordinario intimo esodo dal mondo […]. Le altre due acrobate, la vecchia bulgara della casa bazar e la bambina curiosa, compiono i loro riti personali ma non privati di seppellimento di gatti e dentini. Alla ricerca di spazi altri, alieni come prati senza case e montagne del nord (altro che Padania). Maria, la donna del sud, racconta delle volte che si vorrebbe abbracciare tutti nel tram perché ci si sente che sta per succedere qualcosa di bello. Elena ascolta, cerca di capire (capirsi, trovarsi) e intanto sorride, finalmente. Teresa sembra abbracciare davvero, possedere l’universo in sé. I sogni dei grandi si realizzano da piccoli. Forse restano nella memoria, come una nostalgia che chiamiamo desiderio. Alla fine va a collocare il suo piccolo dente, che quello strano topolino ha portato in giro per l’Italia, proprio là sulle Alpi. Si teme un po’ per lei, nell’ultima inquadratura: sola nella neve, con le raccomandazioni della mamma a fare attenzione. Perché si è adulti e si teme per i piccoli. Ma forse sono loro che dovrebbero temere per noi» (Andrea Bagni).
 
ore 21.15
Quello che cerchi (2001)
Regia: Marco Simon Puccioni; soggetto: M. S. Puccioni; sceneggiatura: Massimo Bavastro, M. S. Puccioni; fotografia: Paolo Ferrari; montaggio: Babak Karimi, Federico Schiavi; scenografia: Marta Zani, M. S. Puccioni; costumi: Sergio Maria Minelli; musica: Cristiano Fracaro, Mike Galasso; interpreti: Marcello Mazzarella, Stefania Orsola Garello, Antal Nagy, Antonella Attili, Lulu Pecorari, Carolina Felline; origine: Italia; produzione: Intelfilm; durata: 105′
Impero, uno schivo investigatore privato, deve indagare su Davide, un ragazzo che vive tra centri sociali e fabbriche abbandonate e che potrebbe essere suo figlio. Infatti sua madre, Michèle, è stato il suo primo amore mentre Francesco, il padre di Davide, è stato suo compagno di gioventù, ma a quarant’anni si è trasformato in donna. Solo Michèle potrebbe chiarire il dubbio di Impero che comunque sente vivo il suo desiderio di paternità. Per un incidente avvenuto durante un attentato dimostrativo Davide deve lasciare la città per rifugiarsi a Napoli. Le tappe del viaggio portano i due a visitare inconsueti territori periferici e segnano la liberazione di Impero dalla depressione che ha dominato la sua vita. Dalle note di regia: «In una società dove i padri sono assenti e tutti sembrano impegnati a ricercare la propria identità ero interessato a raccontare il legame padre figlio tra due persone che non sono parenti. Il punto di arrivo è stato il racconto di una liberazione dalla depressione e dall’ansia del possesso». «Quello che cerchi è il bell’esordio di Marco Simon Puccioni; profetico e dedicato alla generazione “no logo”, ma capace di scavare ancora più a fondo, portando quell’occhio privato più verso il Deckard di Blade Runner che verso il Marlowe di Raymond Chandler. E individuando nel patto di tutela e di scambio che lega le generazioni il punto di frattura decisivo del mondo di oggi. Senza fare sociologismi né facile psicologia, ma lavorando sugli ambienti, sugli attori, sulle immagini rielaborate in digitale da Paolo Ferrari, insomma partendo dal sociale per puntare all’inconscio. Un bel segnale di vitalità» (Ferzetti).

 

 

Date di programmazione