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Orizzonti 1960-1978: Voce del verbo Garriba
08 Febbraio 2012 - 08 Febbraio 2012
 

Il primo appuntamento è dedicato ai fratelli Fabio e Mario Garriba, enfants prodige del cinema italiano, l’attore e il regista, ma anche a sovvertire i rapporti di forza tra i due gemelli, il regista e l’attore, tanto da generare spesso confusione sulle loro apparizioni cinematografiche. Non volendo sciogliere definitivamente il mistero sulla loro presenza nel cinema italiano, lì abbiamo (intra)visti in Vento dell’est di Godard, Lo scopone scientifico di Comencini, Sbatti il mostro in prima pagina di Bellocchio, Non ho tempo di Giannarelli, Una breve vacanza di De Sica, Agostino d’Ippona di Rossellini, La via dei babbuini di Magni, Novecento di Bertolucci, La terrazza di Scola, Sogni d’oro e Bianca di Moretti, Piccoli fuochi di Del Monte. Ma è un film a consacrarli, definitivamente, fin dal principio, nella memoria (e nella storia del cinema italiano): In punto di morte, saggio di diploma al Centro Sperimentale, diretto da Mario e interpretato da Fabio, che vince, a sorpresa, il Pardo d’oro al Festival di Locarno 1971, ex aequo con …Hanno cambiato faccia di Corrado Farina e Les amis di Gérard Blain. Un caso unico nella storia del Centro Sperimentale e del cinema italiano, un saggio di regia che vince uno dei più importanti premi cinematografici del mondo, senza però grandi echi, al punto che l’unico telegramma di felicitazioni il giovane regista lo riceve da Roberto Rossellini con un «bravo, bravo, bravo. A nome mio e del Centro Sperimentale», che vale più dal silenzio della critica, colta alla sprovvista dalla proiezione alle 17 di un fatidico venerdì 13 agosto. Non così la mitica Lotte H. Eisner, che vede il film ed, entusiasta, gli apre le porte della Cinémathèque Française.

In punto di morte: film di snodo del cinema italiano, che riprende da I pugni in tasca di Bellocchio il tema della contestazione all’interno della famiglia, ma con una vena singolare, riassunta in modo folgorante dall’ingegnere del suono, Jeti Grigioni (il fonico di Diario di un maestro di De Seta): «Se il cinema italiano fosse stato più serio, oppure più intelligente, si sarebbe accorto che Woody Allen era già nato e abitava a Roma vicino a Campo dei Fiori». Originalità colta da Nanni Moretti, per il quale In punto di morte «anticipava umori e atmosfere di tanti film realizzati poi negli anni ’70». Nell’eterno gioco dialettico tra i due gemelli Fabio rivendica per sé quell’originalità, facendola risalire al suo saggio di diploma al Centro Sperimentale, I parenti tutti del 1967, altra variazione sul tema della morte (così come l’esercitazione di Mario Voce del verbo morire, a chiudere un ideale trittico): come avrebbe fatto due anni dopo Gino De Dominicis, Fabio Garriba fa stampare un necrologio in occasione della sua morte, duellando anche lui con l’immortalità. Fabio, studente di architettura, al primo anno era già arrivato alla corte di Le Corbusier, che, travolto dai suoi discorsi cinematografici (Pasolini lo inviterà a parlare da solo), gli segnala l’esistenza a Roma del Centro Sperimentale, dove Garriba entra “come caso eccezionale”, non essendo ancora laureato. E come tale si comporta portando una vena di sana pazzia tra le mura del Centro, degno preludio a una breve, ma intensa, carriera da segretario di assistente-aiuto regista per Carmelo Bene (Capricci), De Sica (per l’episodio Il leone de Le coppie), Godard (Vento dell’est), Pasolini (Porcile) e Visconti (provini d’ammissione al Csc), prima di dedicarsi (purtroppo non definitivamente, solo per pochi anni) alla carriera di attore, con il suo inconfondibile volto («la faccia gemella, meno saggia e più tragica», rispetto a quella egualmente «straordinaria» di Mario, come scrisse affettuosamente Tatti Sanguineti), che avrebbe meritato sguardi più attenti, ma che oggi riecheggia prepotentemente nelle numerose particine che fuoriescono qua e là. Innumerevoli camei di un personaggio che portava con la nonchalance di un outsider la sua fama già postuma.
Cinema che già nasce inesorabilmente terminale, «fiore reciso» (ancora Sanguineti), quello dei fratelli Garriba, e muore infatti con la seconda prova da regista di Mario, dopo anni e anni di tentativi repressi dall’industria cinematografica, con un film a suo modo proverbiale per lo stato delle cose, sul finire degli anni Settanta, anni di crisi e di ritorni nell’alveo: Corse a perdicuore, che doveva essere interpretato da Benigni, il quale poi chiede asilo a Ferreri e il povero Mario si deve accontentare di Andy Luotto, terzo personaggio più famoso del momento grazie a L’altra domenica, dopo il Papa e Pertini, secondo il sondaggio di un settimanale decisivo nella scelta del protagonista da parte della casa di produzione, la mitica PEA di Alberto Grimaldi. Poi l’apparente silenzio, spezzata in un calda giornata di settembre, a Venezia, tra treni sbagliati, orari sballati e una lunga fila di spettatori, fra i quali Nanni Moretti, impegnato in «un’operazione nostalgia».
 
ore 17.00
La via dei babbuini (1974)
Regia: Luigi Magni; soggetto e sceneggiatura: L. Magni; fotografia: Franco Di Giacomo; scenografia e costumi: Lucia Mirisola; musica: Armando Trovajoli; montaggio: Ruggero Mastroianni, Amedeo Salfa; interpreti: Pippo Franco, Catherine Spaak, Fabio Garriba, Lionel Stander, Gabriele Grimaldi, Lorena Paris; origine: Italia; produzione: Nuova Cinematografica; durata: 105′
Fiorenza, in crisi con il marito Orazio (Garriba), scopre l’Africa e cambia profondamente. «Basta con Roma, basta con le storie in costume, basta con il passato in cui ho scavato per ricercare le radici di tanti mali e disagi dei nostri giorni, per trovare un amaro riferimento alla attualità. Il mio amore per Roma non può spingersi oltre, per due motivi: un senso di saturazione e di frustrazione che mi opprime oggi in questa città piombata nevroticamente nel caos; il desiderio di dimostrare che non sono solo un autore romano o romanesco soltanto, che posso spingermi fuori delle mura aureliane senza portarmi dietro l’etichetta di Pasquino contemporaneo» (Magni). «La via dei babbuini di Luigi Magni, che si potrebbe anche definire la via italiana al naturismo, cioè la via del ritorno alla natura primigenia, individuata nella foresta vergine, in ciò che ancora rimane d’intatto e d’incorrotto nell’Africa sempre meno inesplorata» (Zanelli).
 
ore 19.00
Corse a perdicuore (1979)
Regia: Mario Garriba; soggetto e sceneggiatura: M. Garriba; fotografia: Emilio Bestetti; scenografia: Sergio D’Osmo; musica: Fiorenzo Carpi; montaggio: Ruggero Mastroianni; origine: Italia; produzione: P.E.A., Cooperativa Cinematografica Antea; interpreti: Andy Luotto, Mirella D’Angelo, Claudio Spadaro, Cristina Manni, Pino Luongo, Riccardo Canali; durata: 97′
«Prima che da una storia sono partito da un’idea. Volevo fare un film sulla timidezza. La timidezza che fa sembrare ogni cosa troppo grande o difficile. La timidezza che finisce per disturbare e diventare ridicola con quella stupida mania di non disturbare e sembrare ridicoli. La timidezza dei ragazzi di fronte alla donna. Ma allora il mio diventava anche un film d’amore. Così ho inventato un personaggio che fosse insieme tutte queste cose. Ma non ho voluto assolutamente fare un film realistico, sociologico o generazionale, anzi la mia storia si muove in un contesto piuttosto rarefatto, costruito su luoghi comuni, addirittura finti, sempre esemplificati. Anche perché la comicità sta più nel comportamento del personaggio, nei suoi incontri, nel modo di parlare che non risolta in gag clamorose. Non solo, ma attorno a lui ho costruito una serie di figure strane e diverse per distribuire in parti uguali la sua follia. E questo anche per lasciare al film un carattere di “gioco”, quasi di favola» (Mario Garriba). Fra questi personaggi, due corrono ininterrottamente per tutto il film, interpretati dai futuri registi Marco Colli e Gianni Di Gregorio, allora giovani sceneggiatori («Ho imparato a scrivere il cinema proprio da Mario Garriba», ha dichiarato Di Gregorio).
 
ore 20.45
I parenti tutti (1967)
Regia: Fabio Garriba; soggetto e sceneggiatura: F. Garriba; fotografia: Elio Bisignani; scenografia: Giacomo Calò; costumi: Franco Della Noce; interpreti: Fabio Garriba, Bianca Bresadola, Renato Tomasino, Anna Rossiello, Nerina Breccia, Gianna Soldano; origine: Italia; produzione: Centro Sperimentale di Cinematografia; durata: 18′
Un ragazzo immagina di essere morto e di sentire i commenti di familiari e amici. «”Mi sento un cadavere, devo far presto a seppellirmi altrimenti puzzo!”. Da questa osservazione si è sviluppato in me il desiderio di assistere ai miei funerali: desiderio elementare che credo ognuno di noi abbia provato. Si trattava cioè di un mio bisogno personale di vedere morta e seppellita la mia infanzia, la mia adolescenza e chiudere così i rapporti con i familiari per poter resuscitare adulto. Tuttavia nel cortometraggio si crea un’ambiguità che porta a sospettare che il protagonista non sia morto. Questa ambiguità riflette la mia situazione reale. Oggi a un anno di distanza posso dire in sincerità che la cassa caricata sul carro funebre era vuota perché mi ritrovo con addosso ancora il mio cadavere alla ricerca di una fossa dove seppellirlo» (Fabio Garriba).
 
a seguire
Voce del verbo morire (1970)
Regia: Mario Garriba; soggetto e sceneggiatura: M. Garriba; fotografia: Emilio Bestetti; montaggio: Jobst Grapow; interpreti: Fabio Garriba; origine: Italia; produzione: Centro Sperimentale di Cinematografia; durata: 16′
Un giovane cerca in tutti i modi di suicidarsi, ma la (s)fortuna non lo assiste e tutti i tentativi falliscono (tragi)comicamente. «Era la prima volta che mi mettevo dietro una macchina da presa e ho voluto provare tutto: carrelli avanti e indietro, accelerazioni, rallentamenti, gags, colore, bianco e nero, viraggi, cinema muto, sonoro, etc… e tutto questo in fretta, anche con confusione, prendendo appunti per film molto più belli che avrei fatto dopo. Ma intanto avevo dimenticato che per fare cinema occorre soltanto fortuna» (Mario Garriba).
 
a seguire
Il previsto incontro con Fabio Garriba è rimandao a data da destinarsi a causa dei disagi dovuti al maltempo
 
a seguire
In punto di morte (1971)
Regia: Mario Garriba; soggetto e sceneggiatura: M. Garriba; fotografia: Renato Berta; scenografia: Lidija Yurakic; musica: Dimitri Nicolau Golovnyi; montaggio: Fabio Garriba, M. Garriba; interpreti: F. Garriba, Elio Capitoli, Ercole Ercolani, Jobst Grapow, Luigi Guerra, Maria Marchi; origine: Italia; produzione: Centro Sperimentale di Cinematografia; durata: 55′
A Orvieto, un giovane di buona famiglia si comporta in maniera irriverente e goliardica nei confronti della famiglia, del mondo del lavoro e delle istituzioni, travolgendo con il suo sarcasmo ogni barriera sociale. Non arrestandosi nemmeno di fronte alla morte, estremo, tragico, gioco. «Non ho voluto raccontare una storia. Ho preso invece un personaggio che con le sue contraddizioni mi permettesse di passare di continuo dalla realtà alla finzione, dal presente al passato come se fossero la stessa cosa. Un personaggio chiuso dentro una città di provincia con giornate tutte uguali fatte da desideri inutili, preti fermi davanti alle chiese, pezzi d’opera cantati a squarciagola, il ridicolo suicidio degli esibizionisti, funerali silenziosi. Ma non ho voluto nemmeno inventare parole nuove e i discorsi sono sempre dei modi di dire così come situazione è un luogo comune. Il rifiuto stesso che il mio personaggio porta contro tutto quello che incontra, non è mai vero e resta sempre un gioco o un sogno, destinato quindi a morire presto per un urlo troppo forte» (Mario Garriba).
Ingresso gratuito

 

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