Omaggio a Cesare Canevari, un regista poco italiano
11 Dicembre 2012 - 11 Dicembre 2012
Si è spento nella sua Milano il 25 ottobre 2012, uno dei registi meno etichettabili del cinema di genere italiano. Ha spaziato dal western (Per un dollaro a Tucson si muore, Matalo!) allo spionistico pop psichedelico (Una jena in cassaforte) e a varie declinazioni dell’eros: dall’erotico intellettuale venatodi atmosfere alienanti alla Michelangelo Antonioni, congiunto al surrealismo dei fumetti di Valentina di Guido Crepax (Io Emmanuelle), a quello folle e delirante (La principessa nuda), senza dimenticare l’eros-svastika (L’ultima orgia del terzo Reich) e l’eros colorato ora di giallo (Delitto carnale), ora di rosso, il colore del melodramma (Il romanzo di un giovane povero). Canevari è uno di quei pochi registi che non si è voluto spostare a Roma perché come dichiarava in un’intervista a Christian Arioli: «Non ho mai voluto andare a Roma per girare i miei film perché non mi trovavo bene. Preferivo restare qua a Milano dove tutto per me era più congeniale. Alla fine non c’era bisogno di andare nella Capitale per fare cinema, se volevi avere dei doppiatori molto bravi di là bastava ingaggiarli e farli venire a Milano. Certo, per la stampa dei negativi qui non eravamo attrezzati ma per il resto…». Canevari comincia da giovanissimo negli anni Cinquanta come attore “amoroso”, ovvero interpretando i ruoli di ragazzino innamorato, per poi proseguire sui sentieri impervi della produzione e della distribuzione, tanto che il suo esordio registico derivava dal fatto che il regista Oscar De Fina aveva deciso di non girare più il western Per un dollaro a Tucson si muore e così Canevari, che produceva il film, decise di mettersi lui dietro la macchina da presa per non perdere tutti i soldi. Ed è sempre Canevari a decidere per il titolo in italiano del film di Nicolas Roeg, Don’t Look Now, in A Venezia un dicembre rosso shocking: «Mi ricordo che l’ho pagato bene quel film per averlo, mi pare cinque o sei milioni. A Milano è stato su un mese in prima visione. Comunque, quando sono rientrato dopo averlo visto, il responsabile da Roma mi chiama e mi chiede: “Allora?”; “Hai fatto bene” gli dico “il film c’è! Però attenzione: o si trova un grosso titolo o altrimenti non fa una lira”. Mi hanno mandato una lista di titoli che già avevano pensato. Uno era “La vera storia di Cappuccetto Rosso”! Ma si può?! Questo era il parto di una distribuzione importante di Roma!”». Schivo, dei suoi film ne salvava ben pochi: dal suo più amato Io Emanuelle («Era proprio il genere di film che amavo fare, stile francese: ero innamorato di quelle atmosfere intimiste che ho poi riprodotto nel mio film. Non so perché ma mi affascinano tutt’ora. Io Emmanuelle è andato molto bene soprattutto all’ estero, in Inghilterra») a Matalo («Ho voluto creare qualcosa di innovativo ma senza inserire chissà quali messaggi, volevo soltanto raccontare una bella storia, tutto qui, con l’intuizione dei dialoghi ridotti all’osso che funzionano molto bene. Non è stata mia intenzione fare una regia distaccata, semi-documentaristica, anche se a qualcuno potrebbe suscitare questa impressione») a Una jena in cassaforte, considerato da Canevari stesso il suo vero esordio. In tutta la sua filmografia ha dimostrato uno stile poco italiano di mettere in scena storie raramente banali, con un’estetica debitricealla Nouvelle Vague (Godard in primis) e a certi autori eccentrici del cinema inglesi (Ken Russell e Nicolas Roeg).
ore 17.00
Una jena in cassaforte (Hybrid) (1968)
Regia: Cesare Canevari; soggetto e sceneggiatura: Alberto Penna, C. Canevari; fotografia: Claudio Catozzo; scenografia: Mario Sola; musica: Gianfranco Reverberi; montaggio: Enzo Monachesi; interpreti: Dimitri Nabokov, Marie Louise Greisberger, Ben Salvador, Alex Morrison, Cristina Gajoni; origine: Italia; produzione: Fering; durata: 100′
«Folle thriller psichedelico di Cesare Canevari alla sua seconda esperienza. Cast di sconosciuti, a parte Cristina Gajoni più trash che mai. Una banda cerca di aprire una cassaforte rubata in una villa. Non ci riescono facilmente, così hanno la meglio i nervi e si eliminano a uno a uno. […] Pretarantinata con scene forti, tendenze lesbo, colori strani, quasi inguardabili, un finale con una macchia pulsante che prende corpo sullo schermo» (Giusti). Insomma, imperdibile. «La Jena è il mio primo vero film. Gli attori erano tutti non professionisti, pensa che tra questi c’era pure il mio avvocato; la sola, diciamo professionista, era la Gaioni. Purtroppo questo film non è riuscito al cento per cento per via di facce poco cinematografiche, o meglio, non avevo attori importanti che potessero fare cassetta, anche se il prodotto sembrava girato con molti più soldi di quelli che spesi in realtà, tant’è che un distributore, vedendolo, mi disse: “Canevari, lei avrà speso 200 milioni…” e io “Sì !”. Comunque Una jena in cassaforte ha della tecnica, ho usato diversi obiettivi, ho messo in pratica ciò che avevo imparato e si vede. Ripeto: sicuramente si sarebbe potuto fare di più con un budget più elevato e diversi attori. Però quelli erano altri tempi! Pensa, un sabato ho radunato la troupe perché non potevo pagarli. “Non si preoccupi” mi dissero, “quando vogliamo cominciare, lunedì? Va bene, alle nove siamo qui”. “Guardate che vi potrò pagare sabato prossimo”. “Va bene”. E poi facevamo, 10 ore, 12 ore… Oggi sarebbe una cosa improponibile. Attenzione, non parlo solo nel cinema, in tutti i campi!» (Canevari).
ore 19.00
Io Emmanuelle (1969)
Regia: Cesare Canevari; soggetto: C. Canevari ispirato al racconto Disintegrazione 68 di Graziella Di Prospero; sceneggiatura: Giuseppe Mangione, Graziella Di Prospero, C. Canevari; fotografia: Claudio Catozzo; musica: Gianni Ferrio; montaggio: Gian Maria Messeri; interpreti: Erika Blanc, Adolfo Celi, Paolo Ferrari, Milla Sannoner, Sandro Korso, Lia Rho Barbieri; origine: Italia; produzione: Rofima Cinematografica; durata: 96′
Emmanuelle vaga disperata per la città, inseguendo il ricordo dell’uomo dal quale è stata lasciata, fino alla sorprendente rivelazione finale. Sullo sfondo la contestazione giovanile che la vede occasionalmente coinvolta. Erika Blanc porta sul suo corpo il peso dell’intero film; peccato che un critico ingeneroso, Ripamonti sull’«Avanti!», l’abbia bocciata senza appello: «Il particolare più espressivo […] è l’ombelico». Da non confondere con le varie Emmanuelle, con o senza le due m. «Ho girato […] in un appartamento di Berlusconi. Lui era costruttore e aveva dei complessi edilizi. Avevamo bisogno della casa della protagonista e il direttore di produzione, il bravissimo Palumbo, andò da Berlusconi che ci mise a disposizione questo suo appartamento. Ho ancora la lettera in cui ci autorizza a girare in quell’appartamento. […] Piuttosto, lo sapete perché Io Emmanuelle si intitola così? Il film usciva inizialmente come Emmanuelle: vado in censura, prima e seconda censura, bocciato! Allora esco dalla censura e dopo di me esce il vecchio Cecchi Gori. Io ero sotto il Ministero, lì fermo, incazzatissimo, con il produttore amico mio. Cecchi Gori arriva con la macchina, tira giù il finestrino e fa: “Canevari, lei ha fatto un gran bel film, ma dentro son tutti coglioni, non capiscono niente”. Lui faceva parte della giuria, era quello che voleva salvare il film ma non riusciva. “Ritocchi qualche cosina per accontentare quegli stronzi, poi si faccia vedere da me”. Io da lui non mi sono mai fatto vedere: pensa che coglione che sono stato. Però ho ritoccato il film e allora ho dovuto fare tutta la pratica come se fosse un nuovo film, quindi cambiando il titolo: Io Emmanuelle» (Canevari).
ore 21.00
Il romanzo di un giovane povero (1974)
Regia: Cesare Canevari; soggetto: dal romanzo omonimo di Octave Feuillet; sceneggiatura: Mino Roli, C. Canevari; fotografia: Claudio Catozzo; musica: Gianfranco Reverberi; montaggio: C. Canevari; interpreti: Raffaele Curi, Maria Pia Giancaro, Alessandro Quasimodo, Anna Zinneman, Erna Schurer, Richard Harrison; origine: Italia; produzione: Andromeda; durata: 101′
«Un giovane nobile in disgrazia trova lavoro presso un ricco casato e incontra al contempo l’amore nella figlia del suo principale. Le circostanze paiono però complottare contro di lui… A parlare di questo film a Canevari si rischia la lapidazione. Lo dirige nel 1974, stagione in cui i melo drammoni che attingono a Feuillet e alla Invernizio sono una mezza dozzina, da La sepolta viva di Lado a Il bacio di una morta di Infascelli, senza contare il fenomeno dei lacrima-movies in espansione. E non lo dirige male, perché sotto il profilo tecnico la confezione è ineccepibile, a tratti persino virtuosistica: zoom velocissimi avanti e indietro, riprese a mano di grande fluidità, tagli di inquadratura numerosi. E a un certo punto Richard Harrison si mette a dare schiaffoni in macchina, secondo l’insegnamento di Corbucci (Django) e di Leo (Milano calibro 9). Insomma, l’inventiva canevariana persiste, ma si scontra con una materia di cui al regista non frega, visibilmente, nulla. La fatica di sceneggiare Feuillet, per farlo ingoiare al medesimo pubblico di Ingrid sulla strada, è del resto dichiarata fin dai credits: una pletora di nomi scrivono il film e i dialoghi, oltre a Canevari stesso Luigi Cozzi (!), Daniele Del Giudice e Alberto Penna, al quale ultimo pare si debba in gran parte l’operazione. Anziché”regia”, la dicitura è “libero adattamento di Cesare Canevari – a carattere cubitali, quasi una tentazione d’autore – del romanzo di Octave Feuillet”» (Pulici). «Girato in economia, ma con pulizia, senza calcare la mano dove sarebbe lecito, il film si propone in un livello televisivo. Maria Pia Giancaro è bella, ma non si riesce a soffrire le prime nuvole che turbano la sua spensierata adolescenza; Raffaele Curi è povero […] ma non si riesce a parteggiare per la sua casata; si riesce però ad odiare il perfido Riccardo, grazie anche agli sforzi di Alessandro Quasimodo, che disegna il personaggio con un tocco di ben riuscito grottesco» (M.P., «Il Giorno», 11 maggio 1974).