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Nel segno di Roland Barthes
13 Gennaio 2016 - 13 Gennaio 2016
Il 26 marzo 1980 moriva, travolto da un furgone, il saggista, critico letterario e semiologo francese Roland Barthes. Nato cento anni fa, il 12 novembre 1915 a Cherbourg, Barthes è stata una figura fondamentale nel panorama culturale francese del dopoguerra, le sue teorie sul linguaggio e la significazione non solo sono state un costante punto di riferimento per la semiologia, ma hanno rappresentato un importante contributo all’affermarsi della nouvelle critique, che, in contrapposizione alla tradizione accademica, vedeva nel testo produttore di segni – e non solo nell’autore – il luogo privilegiato dell’analisi letteraria. La critica letteraria è per Barthes una scienza che si avvale di altre scienze, tra cui la linguistica strutturale, la psicoanalisi e la sociologia (Essais critiques, 1964). La sua opera tende alla sistemazione della scienza dei “segni” (L’impero dei segni, 1970). Per quanto riguarda il cinema, come ha scritto Vittorio Lingiardi, Barthes «al film, preferisce la sala (Il brusio della lingua). Al cinema, la fotografia (La camera chiara). Tutt’al più il fotogramma, “morale del segno” (la frangetta di Brando, il volto della Garbo) (Miti d’oggi)».
 
ore 17.00 Luci della ribalta di Charles Chaplin (1952, 141′)
«In Limelight Chaplin si strucca energicamente davanti a un bicchiere. Spunta allora da dietro al tovagliolo un volto strano, quasi imbarazzante, giovanile e femmineo, tanto sono pure le sue linee. La violenza di questa trasformazione gli dà qualcosa di magico: è, alla lettera, una trasformazione, di cui solo la mitologia e l’entomologia potrebbero parlare. Il genio del cinema consisterebbe dunque nell’intensificare i fenomeni razionali, in modo da far apparire in qualche modo il supplemento di purezza. Risulterebbe così collegato con il fondo mitologico dell’umanità, non con qualche appello magniloquente e favoloso, ma semplicemente pesando sull’immagine. Perché, dopo tutto, togliendosi il trucco, “cinematograficamente”, Chaplin non fa che prendere alla lettera la metafora che ci prescrive di “levare la maschera” o di “spogliare il vecchio uomo”» (Barthes).
 
ore 19.30 Grisbì di Jacques Becker (1954, 90′)
«Nei film della “Serie Nera” si è arrivati oggi a un buon gestuario della disinvoltura: bambole dalla morbida bocca intente a formare anelli di fumo sotto l’assalto degli uomini; olimpici schiocchi di dita per dare il segnale netto e parsimonioso di una raffica; calmo sferruzzare della moglie del capo nel pieno delle situazioni più scottanti. Grisbì aveva già istituzionalizzato questo gestuario del distacco dandogli la cauzione di una quotidianità molto francese» (Barthes).
 
ore 21.15 Ivan il terribile di Sergei M. Ejzenstejn (1944, 99′)
«Il filmico è, nel film, ciò che non può essere descritto, è la rappresentazione che non può venir rappresentata. Il filmico comincia solo là dove cessano il linguaggio e il metalinguaggio articolati. Tutte le cose che si possono dire a proposito di Ivan o del Potemkin possono riguardare un testo scritto (che si chiamerebbe Ivan il Terribile o La corazzata Potemkin), salvo quest’ultima che è il senso ottuso. Posso commentare tutto di Eufrosinia, salvo la qualità ottusa della sua faccia: il filmico è esattamente là, dove il linguaggio articolato diventa solo approssimativo e dove inizia un altro linguaggio (la cui “scienza” non potrà essere dunque la linguistica, subito lasciata cadere come il primo stadio di un missile)» (Barthes).
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