Linganno più dolce. Il cinema di Alberto Lattuada
08 Settembre 2009 - 12 Settembre 2009
Per la 45sima edizione della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro (21-29 giugno 2009) il Centro Sperimentale di Cinematografia – Cineteca Nazionale ha organizzato con la Fondazione Pesaro Nuovo Cinema il 23° Evento Speciale, la retrospettiva completa del cinema di Alberto Lattuada, a cura di Adriano Aprà, con la collaborazione di Cinecittà Luce, Cineteca Italiana, Cineteca di Bologna, Cinémathèque Suisse. Per l’evento la Cineteca Nazionale ha ristampato alcuni dei più significativi film del maestro lombardo: Il mulino del Po (1949), La Lupa (1953), La tempesta (1958) e La mandragola (1965), mentre il capolavoro Il cappotto (1952) è stato presentato nella versione restaurata a cura di Fondazione Philip Morris e Museo del Cinema di Torino. Sono state poi presentate le rarissime immagini dell’esercitazione per gli allievi del Centro Sperimentale di Cinematografia tenuta da Lattuada nell’anno accademico 1948-49. Per la manifestazione pesarese il Centro Sperimentale di Cinematografia ha pubblicato inoltre il volume-catalogo L’inganno più dolce. Il cinema di Alberto Lattuada, a cura di Silvia Tarquini. Riportiamo qui di seguito la prefazione al volume di Sergio Toffetti:
«Lo storico dell’arte Erwin Panowfsky paragona la produzione di un film all’edificazione di una cattedrale medievale, con il vescovo committente nella parte del produttore, il regista in quella dell’architetto capo e gli sceneggiatori come consiglieri scolastici che stabiliscono il programma iconografico. Arte collettiva per eccellenza, il cinema infatti ha sempre causato acerrime discussioni per definire chi ne sia l’autore. Ma in realtà, la critica italiana ha sempre avuto bisogno di “segni forti” per riconoscere gli autori, fondandone la personalità più sulla coerenza tematica che sull’identificazione, all’interno delle opere, di ricorrenti figure espressive […]. Sfuggono agli schemi preordinati soprattutto i più prolifici, come Alberto Lattuada. Ma se la qualità della sua produzione cede talvolta all’impatto con gli obblighi produttivi, nel complesso – e ciò gli verrà riconosciuto a partire dagli anni ’80 – il suo stile raffinato si rivela anche dietro l’apparente casualità delle storie, un po’ sulla falsariga dei grandi autori hollywoodiani. In questa prospettiva la linea direttrice del suo cinema riprende continuità, dal “calligrafismo” degli esordi, alla stagione neorealista – i cui film, tuttavia, potrebbero di volta in volta essere classificati altrettanto bene nelle caselle tassonomiche del noir (Il bandito, Senza pietà), o del romanzo storico (Il mulino del Po), ecc. – all’autorialità morbida che sa esprimere a cavallo degli anni ’60, sicuramente fiutando nell’aria l’arrivo delle nouvelles vagues, fino all’esemplarità di mestiere dell’ultimo periodo. […] In una delle sue incursioni nella commedia all’italiana – anche se predilige sempre un territorio di confine dove i generi diventano indefinibili, Lattuada regala ad Alberto Sordi uno dei suoi personaggi più intensi, il “picciotto” siciliano, cui “gli amici” hanno trovato un buon posto nell’industria del nord, e che per disobbligarsi è costretto ad accettare un contratto da killer a New York ne Il mafioso (1962). Lattuada recupera l’eterogeneità dei temi con la coerenza di uno stile estremamente raffinato, nutrito di derivazioni letterarie e attento ai valori plastici nella composizione dell’inquadratura, che a tratti produce un cinema di grande libertà, spesso in singolare sintonia, pur nella diversità di punti di riferimento culturali, con un certo psicologismo esistenziale dei “giovani autori”. Segni di vivacità culturale anticipata dalla formazione di questo giovane intellettuale milanese che, assieme a un gruppo di amici, tra cui Mario Ferrari, Gianni e Luigi Comencini, Luciano Emmer, Luigi Veronesi, fonda nel nostro paese la Cineteca Italiana: a loro si deve il salvataggio di numerose pellicole, destinate al macero, e la leggendaria proiezione a Milano, in pieno fascismo, di La grande illusione di Renoir, che costringe lo stesso Lattuada a un breve periodo di clandestinità. Lattuada lo ritroviamo anche insieme a Ernesto Treccani nella rivista in odor di fronda Corrente, cui collaboreranno, fra gli altri, Argan, Gadda, Quasimodo, Pratolini, Saba, Vittorini. Sulle pagine di Corrente compaiono per la prima volta le tavole fotografiche realizzate da Lattuada: l’Occhio quadrato che anticipa lo sguardo del neorealismo sulla realtà, colta al di fuori degli schemi, suscitando, tra l’altro, una sorprendente reazione di Pio Nimeco alias Domenico Purificato sulle pagine di Cinema: “M’insospettisce quell’armamentario rugginoso da rigattiere di Campo de’ Fiori, quegli abusati manichini da sarti e da barbieri, quel commovente, commosso, filantropico, ottocentesco sguardo agli uomini dei tuguri e delle catapecchie, ai bambini malaticci, agli scapoli “cucinieri e lavandai” ” […]. Quello sguardo “ottocentesco” diverrà di lì a poco lo sguardo comune di una generazione di cineasti, e una delle caratteristiche della “factory Lattuada”: la moglie Carla Del Poggio in primo luogo, che Lattuada dirige in alcuni dei suoi film più belli; il padre Felice, che esordisce nel cinema come compositore con Camerini un po’ prima del figlio; ma anche la sorella Bianca segretaria di produzione in tanti dei suoi film, e Aldo Buzzi, il compagno di Bianca, che in parallelo alla straordinaria carriera nell’editoria, gli farà da assistente e da sceneggiatore; e addirittura i suoceri, Ugo e Maria Pia Attanasio che trasforma in attori, e poi il figlio Francesco, oggi affermato production manager. Del resto, è la stessa cosa che, da vero innamorato del cinema, Alberto Lattuada ha finito per fare anche con noi spettatori: ci ha coinvolto nei suoi amori».
martedì 8
ore 17.00
Il bandito (1946)
Regia: Alberto Lattuada; soggetto: A. Lattuada; sceneggiatura: Oreste Biancoli, Mino Caudana, Ettore Maria Margadonna, A. Lattuada, Tullio Pinelli, Piero Tellini; fotografia: Aldo Tonti; scenografia: Luigi Borzone; musica: Felice Lattuada; montaggio: Mario Bonotti; interpreti: Anna Magnani, Amedeo Nazzari, Carla Del Poggio, Carlo Campanini, Eliana Banducci, Mino Doro; origine: Italia; produzione: Lux Film, R.D.L.; durata: 84′
«Reduce dalla prigionia in Germania, Ernesto arriva a Torino, uccide lo sfruttatore della sorella, diventa capo di una banda e muore in uno scontro con la polizia. Film neorealista sui generis: il suo neorealismo è tutto nella prima, suggestiva sequenza, ma poi si trasforma in una gangster story di modello americano sulla quale il regista innesta la sua cultura cinematografica. […] A. Nazzari vinse il Nastro d’argento come miglior attore» (Morandini). «Ricordo che durante la proiezione del mio film Il bandito (1946) al primo festival di Cannes del dopoguerra, la delegazione sovietica guidata da Gerassimov saltava sulle seggiole quando il reduce passava tra le rovine della sua città, Torino, mentre un altoparlante lontano trasmetteva una canzone americana, precisamente A tisket,a tasket. (Il giorno seguente la delegazione ha dato un pranzo in mio onore). La panoramica che inquadra Nazzari e senza stacco diventa una soggettiva del suo stato d’animo nel guardare la rovina della casa paterna e diventa poi un documento oggettivo sul dolore di tutti di fronte ai disastri della guerra e ancora senza stacco torna su Nazzari riportando in un primo piano di tempo reale, ha dato modo a Bazin di dedicare due pagine intere su “Esprit” a questa panoramica (Lattuada).
Film vietato ai minori di anni 16
ore 19.00
Il delitto di Giovanni Episcopo (1947)
Regia: Alberto Lattuada; soggetto: dal romanzo Giovanni Episcopo di Gabriele d’Annunzio; sceneggiatura: Suso Cecchi d’Amico, Aldo Fabrizi, Federico Fellini, Alberto Lattuada, Piero Tellini; fotografia: Aldo Tonti; architetto: Dario Cecchi; costumi: Gino C. Sensani; musica: Felice Lattuada; montaggio: Giuliana Attenni; interpreti: Aldo Fabrizi, Roldano Lupi, Yvonne Sanson, Ave Ninchi, Nando Bruno, Alberto Sordi; origine: Italia; produzione: Lux Film, Pao Film; durata: 92′
«Il protagonista, che narra di sé in prima persona, è un impiegato dell’Archivio di Stato, un tipo dostoevskiano di “umiliato e offeso”, succube di un uomo prepotente e sanguigno, un certo Wanzer che vive di espedienti e di cui egli ha sposato l’amante Ginevra. A Ginevra lo lega una sensualità avvilente e miserabile, avendo per unico bene lo struggente amore per il figlio Ciro, decenne» (Cosulich). «Mi piaceva l’idea di descrivere una Roma che non era la Roma dei pini, ma una città quasi russa, piena di miasmi, con la nebbia che allora meravigliò tutti. Ma, come, la nebbia a Roma! E perché no? Ogni tanto la nebbia scende anche al sud. La scrittura di Giovanni Episcopo è in chiave russa: una storia di umiliazione, di distruzione della personalità attraverso l’amore. Fabrizi fece un’interpretazione magistrale. Gli chiesi di perdere trenta chili e lui, che si era entusiasmato della parte, perché voleva abbandonare il personaggio de L’ultima carrozzella ed entrare nel mondo di D’Annunzio, si mise a digiunare, a remare su e giù per il Tevere. La sua interpretazione è degna di uno Jannings: è un po’ nella chiave dello Jannings de L’angelo azzurro. Per la parte di Ginevra ho fatto dieci, dodici provini ad attrici che emergevano […]. Scelsi la Sanson che Fabrizi non voleva. Io invece, testardo, ho detto no, questa è la pupattola, la grande pupa che può portare alla rovina un impiegatuccio attraverso il sesso» (Lattuada).
ore 21.00
Senza pietà (1948)
Regia: Alberto Lattuada; soggetto: Tullio Pinelli, Federico Fellini, da un’idea di Ettore Maria Margadonna; sceneggiatura: F. Fellini, A. Lattuada, T. Pinelli; fotografia: Aldo Tonti; ambientazione e costumi: Piero Gherardi; musica: Nino Rota; montaggio: Mario Bonotti; interpreti: Carla Del Poggio, John Kitzmiller, Pierre Claudé, Giulietta Masina, Folco Lulli, Lando Muzio; origine: Italia; produzione: Lux Film; durata: 90′
«L’ambiente delle donne costrette dalla miseria alla crudeltà e all’amarezza del commercio con i soldati stranieri, e quello degli speculatori trafficanti, riprodotti senza compiacimenti di effetti facili, inquadrano la vicenda candida di un negro e di una ragazza: non c’è vizio ma dolore, non abbruttimento ma coscienza, e in tutti un’ansia di liberazione e di purificazione, fuorché nei loschi affaristi solo intenti al denaro, al loro mestiere di sciacalli mai sazi» (Valori). «La retorica del Tombolo, la retorica delle prostitute del dopoguerra, dei ladri, ha già fatto la sua comparsa nel cinema italiano. Lattuada la supera, non fa il neorealista per forza; racconta una verità di ieri con una poetica grigia, livida, lugubre e, volta a volta, anche allucinata; fa pensare a Baudelaire, diventa quasi romantico, ma non perde mai l’amore dello scarno. Tecnicamente la sua regia è da segnalare come una delle sue più equilibrate e complete: il composito è stato sacrificato all’essenziale, il ritmo ne ha guadagnato in semplicità, lo stile in snellezza, il campo visivo in funzionalità, mentre la fotografia ha dimostrato di essere sempre al servizio di verità liriche e non di verità solo “viste”, tutta chiaroscuri e sfumature, senza luci dure, senza bianchi aspri, senza rigidi realismi atmosferici; con una tecnica perfetta. Protagonista femminile è Carla Del Poggio, il cui temperamento drammatico ogni giorno si avvia a maturazione maggiore e diviene talento. Le è efficace compagno John Kitzmiller» (Rondi).
mercoledì 9
ore 17.00
Il mulino del Po (1949)
Regia: Alberto Lattuada; soggetto: dal romanzo omonimo di Riccardo Bacchelli; sceneggiatura: Federico Fellini, Tullio Pinelli; riduzione: Riccardo Bacchelli, Mario Bonfantini, Luigi Comencini, A. Lattuada, Carlo Musso, Sergio Romano; fotografia: Aldo Tonti; architetto: Aldo Buzzi; arredamento: Luigi Gervasi; costumi: Maria De Matteis; musica: Ildebrando Pizzetti; montaggio: Mario Bonotti; interpreti: Carla Del Poggio, Jacques Sernas, Mario Besesti, Giulio Calì, Anna Carena, Giacomo Giuradei; origine: Italia; produzione: Lux Film; durata: 104′
«Tratto dal terzo volume del romanzo di Riccardo Bacchelli, Il mulino del Po è un film corale, in cui i personaggi di primo piano vengono sommersi dalla folla, dalla vasta corrente del fiume, dall’accaldata pianura ferrarese. Lattuada vi racconta la storia d’amore della mugnaia Berta Saraceni e del contadino Orbino Verginesi; ma principalmente racconta un brano di storia della pianura padana, la nascita del socialismo in una zona che ancor oggi ospita le più accanite lotte di fazioni. I contadini scoprono per la prima volta la forza della solidarietà, e collaudano con lo sciopero tale forza ancora incerta, per opporsi al dispotismo del padrone. Il contrasto fra la dominazione antica e i fermenti nuovi ci dà, nel film, alcune splendide pagine. Quella lunga fila di contadini e contadine scioperanti, ritti sull’argine mentre i soldati mietono, la corsa sfrenata giù per la discesa, la mischia fra le spighe, ecco un brano di cui qualsiasi regista potrebbe andar fiero. La storia d’amore che emerge dalla coralità del film, è lineare, ottimamente condotta, sincera. Mai avevamo visto Carla Del Poggio così viva e appassionata; […] Jacques Sernas l’asseconda in modo eccellente, confermando le doti che l’hanno reso così popolare in Italia, sin dal suo primo film» (Baracco).
ore 19.00
Luci del varietà (1950)
Regia: Federico Fellini, Alberto Lattuada; soggetto: F. Fellini; sceneggiatura: F. Fellini, A. Lattuada, Tullio Pinelli; [collaborazione alla sceneggiatura: Ennio Flaiano]; fotografia: Otello Martelli; architetture e costumi: Aldo Buzzi; arredamento: Luigi Gervasi; musica: Felice Lattuada; montaggio: Mario Bonotti; interpreti: Peppino De Filippo, Carla Del Poggio, Giulietta Masina, John Kitzmiller, Dante Maggio, Checco Durante; origine: Italia; produzione: Capitolium Film; durata: 98′
«Il capo di una compagnia di guitti (Peppino De Filippo) che presenta la sua scalcinata rivista in meschini teatri di provincia, inganna un’innamorata (Giulietta Masina) con una fresca campagnola (Carla Del Poggio) che l’abbandona per un impresario (Folco Lulli). Più che di Lattuada, il film reca l’impronta di Fellini. Già si avverte il suo “universo”, la divertita tenerezza, la tristezza ironica, il gusto per il barocco, l’amore per il povero mondo dei “guitti”. La descrizione della “tournée” della compagnia è a volte di un’efficacia impressionante, tra il grottesco e l’amaro» (Sadoul). «Voglio produrre un film, voglio fondare una cooperativa spontanea. Ecco la squadra: Carla Del Poggio, Giulietta Masina, Peppino De Filippo, organizzazione generale Bianca Lattuada, musica di mio padre Felice Lattuada, maestro delle luci Martelli, Mario Ingrami nostro alleato con un certo capitale liquido. Il soggetto nasce dagli appunti di Fellini sulla vita grama dei guizzi dell’avanspettacolo, La sceneggiatura scritta a tre mani da Fellini, Pinelli e me stesso. La regia?… sussurro a Federico: “Accanto al mio nome il tuo apparirà scritto a grandi lettere sullo schermo. Dopo questa prova tu incomincerai la tua carriera e, siccome il mio sesto senso dice che sei un genio, procederai verso la gloria”» (Lattuada).
Film vietato ai minori di anni 14
ore 21.00
Esercitazione dell’anno 1948-49
Regia: Dino Bartolo Partesano, Guido Cincotti; origine: Italia; produzione: Csc; durata: 12′
Nell’anno accademico 1948-1949 Alberto Lattuada tiene un laboratorio per gli allievi del Centro Sperimentale di Cinematografia. L’esercitazione si basa su Il castello di Franz Kafka, con gli allievi attori Carlo Hintermann e Giuliana Mafai, costumi di Giulio Mafai. Un documento di questa esercitazione è raccolto nel backstage intitolato Esercitazioni dell’Anno 1948-49, curato dagli allievi registi Dino Bartolo Partesano e Guido Cincotti. Il mediometraggio comprende anche le esercitazioni tenute nello stesso anno da Alessandro Blasetti e da Mario Soldati.
a seguire
Anna (1951)
Regia: Alberto Lattuada; soggetto e sceneggiatura: Giuseppe Berto, Franco Brusati, Ivo Perilli, Dino Risi, Rodolfo Sonego [e Luigi Malerba]; fotografia: Otello Martelli; architetto: Piero Filippone; arredatore: Gino Brosio; musica: Nino Rota; montaggio: Gabriele Varriale; interpreti: Silvana Mangano, Gaby Morlay, Raf Vallone, Jacques Dumesnil, Vittorio Gassmann [poi Gassman], Patrizia Mangano; origine: Italia/Francia; produzione: Lux Film, Lux Film CCF; durata: 107′
«Anna è una sirena di locali notturni, è l’amante del barista (Vittorio Gassman), cui ella soggiace con l’oscura impressione d’una degradazione e d’una colpa, come al vizio d’una droga. Si innamora di lei un giovane signore di campagna (Raf Vallone) in cui ella intuisce che cosa può essere il compagno ed amico di tutta una vita. Finirebbe col consentire a sposarlo, e gli si presenta in casa dopo aver attinto ancora una volta all’uomo che la domina in ogni fibra, se non che, alla vigilia delle nozze, un incontro fra l’amante e il fidanzato si conclude in una tragedia […]. L’ambiente in cui si svolge gran parte del nuovo film di Alberto Lattuada, Anna, un’ospedale modernissimo, e precisamente il nuovo Ospedale Maggiore di Milano, sembrerebbe l’ambiente d’un documentario realizzato con estrema abilità. È un materiale che, anche considerato a sé, ha un ritmo, un interesse, costituisce un racconto. L’ambiente estremamente moderno, i materiali nuovi di cui è fatto, la cura estrema dell’igiene, attenuano alquanto la tragedia quotidiana che ha qui la sua scena. L’apparato della scienza ne attenua quasi il dolore. […] È la crudele perfezione e indifferenza della macchina moderna. La città manda qui a ogni suo palpito gli uomini che consuma e che rompe. C’è un ritmo e un ciclo. Non si può dire che il regista non abbia approfittato di questa visione che avrebbe esaltato un Balzac, con la sua gelida sinfonia di bianchi, lacche, vernici, biancheria. Per poco, un documentario simile non diventa allucinante» (Alvaro).
giovedì 10
ore 17.00
La tempesta (1958)
Regia: Alberto Lattuada; soggetto: dai racconti Storia della rivolta di Pugačëv e La figlia del capitano di Aleksandr Puškin; sceneggiatura: Ivo Perilli, A. Lattuada; fotografia: Aldo Tonti; scenografia: Mario Chiari; arredamento: Maurizio Serra Chiari; costumi: Maria De Matteis; musica: Piero Piccioni; montaggio: Otello Colangeli, [Henry Rust]; interpreti: Silvana Mangano, Van Heflin, Viveca Lindfors, Geoffrey Horne, Vittorio Gassman, Aldo Silvani; origine: Italia/Francia; produzione: Dino De Laurentiis Cinematografica, Gray Films, S.N. Pathé Cinéma, Bosna Film, Sarajevo; durata: 122′
«Un cadetto della zarina Caterina II si presenta ubriaco fradicio al cospetto di lei. Viene allontanato per punizione e, per avventura, salva da sicuro assideramento l’indomito Pugaceev, cosacco che diverrà protagonista di una prodigiosa ribellione. È l’inizio de La tempesta, tratto da una celebre opera di Puskin e diretto da Alberto Lattuada, “eclettico autore” di cinema per antonomasia. Dalle novelle di Puskin, il produttore De Laurentiis aveva già realizzato un film nel 1947, La figlia del capitano, diretto da Mario Camerini e, nell’era del kolossal internazionale (è sempre lui a produrre Guerra e pace), decide di metterne in cantiere una nuova versione con un cast misto, italiano americano (Silvana Mangano, Vittorio Gassman, Van Heflin, Geoffrey Horne) e in campo neutro: la Jugoslavia viene scelta per gli esterni e vengono reclutati i reparti di fanteria e cavalleria dell’esercito. Risultato: un prodotto di genere, rifinito da un regista di indiscutibile gusto cinematografico; il massimo incasso della stagione 1957-58. Dice lo stesso regista: “È un film popolare ma anche una lezione di storia”» (Sesti).
ore 19.15
Il cappotto (1952)
Regia: Alberto Lattuada; soggetto: dal racconto omonimo di Nikolaj Gogol’; sceneggiatura: A. Lattuada, Giorgio Prosperi, Giordano Corsi, Enzo Curreli, Luigi Malerba, Leonardo Sinisgalli, Cesare Zavattini; fotografia: Mario Montuori; scenografia: Gianni Polidori; architetto di esterni: Sergio Baldacchini; costumi: Dario Cecchi; interpreti: Renato Rascel, Yvonne Sanson, Giulio Stival, Ettore G. Mattia, Giulio Calì, Olinto Cristina; origine: Italia; produzione: Faro Film, Messina, Titanus; durata: 107′
«Nel Cappotto […] vediamo, da un lato, feroci, inumani, corrotti, vanitosi, ipocriti volgari, i funzionari di uno spietato potere egemonico (e vestono i panni della borghesia, arrecano tutti i segni emblematici di questa classe); e dall’altro, oppressi e umiliati, popolani la cui miseria contrasta con la ricchezza e il fasto dei potenti borghesi, popolani la cui sete di giustizia è soffocata e i cui più elementari diritti di cittadino sono negati e vilipesi. […] Il cappotto di Carmine è ridotto a tal partito da non poter più sopportare nemmeno un rammendo. L’impiegato cercherà di ottenere un poco di tepore, e un poco di rispetto umano, e magari anche l’amore di un’affascinante e statuaria donna con un cappotto nuovo. Cercherà di ottenere felicità con una finzione: il “decoro”, rappresentato dal cappotto nuovo, dovrebbe servire a risparmiarlo dai sarcasmi e dagli insulti, far di lui un vero uomo. Questa finzione è per Carmine una realtà profondamente sentita, alla quale egli crede: per dirla con termine esatto, la sua alienazione» (Viazzi).
ore 21.15
Gli italiani si voltano (episodio de L’amore in città, 1953)
Regia: Alberto Lattuada; soggetto e sceneggiatura: [Aldo Buzzi], Luigi Malerba, Alberto Lattuada; fotografia: Gianni Di Venanzo; musica: Mario Nascimbene; montaggio: Eraldo Da Roma; interpreti: Mara Berni, Valeria Moriconi, Giovanna Ralli, Patrizia Lari, Edda Evangelisti, Liliana Poggiali; origine: Italia; produzione: Faro Film; durata: 14′
«Per il suo episodio, Gli italiani si voltano, Lattuada sguinzaglia in una Roma estiva e accaldata uno sciame di belle ragazze vistosamente truccate e abbigliate, poi nasconde la cinepresa in un camioncino che – come in una candida camera – le segue passo passo mentre camminano, registrando le reazioni dei passanti che si voltano e commentano. La tecnica dello “specchio segreto”, in linea con l”intenzione documentaria del progetto della Faro Film, si piega in realtà a considerare non solo le reazioni delle persone all’oggetto stesso che le provoca: il corpo femminile. La macchina da presa, con uno sguardo oggettivo, pone al centro dell’inquadratura le ragazze con il contorno dei passanti; altre volte, in soggettiva, si sostituisce completamente all’occhio dell’osservatore isolando un dettaglio anatomico: le gambe, il seno, i fianchi, il volto. Il primato del corpo, già attuato con La Lupa e riproposto successivamente da La mandragola sino ai film degli ultimi anni, trova con Gli italiani si voltano una formulazione esplicita» (Camerini).
a seguire
La lupa (1953)
Regia: Alberto Lattuada; soggetto: dalla novella omonima di Giovanni Verga; sceneggiatura: A. Lattuada, Luigi Malerba, Alberto Moravia, Antonio Pietrangeli [e Giuseppe Berto]; fotografia: Aldo Tonti; architetto: Carlo Egidi; arredatore e costumista: Dario Cecchi; musica: Felice Lattuada; montaggio: Leo Catozzo; interpreti: Kerima, Ettore Manni, May Britt, Mario Passante, Anna Arena, Giovanna Ralli; origine: Italia; produzione: Ponti-De Laurentiis; durata: 96′
«Da un racconto di Giovanni Verga. Focosa contadina quarantenne fa sposare la tenera figlia a un soldato che fu suo amante e che vuole riconquistare. A. Lattuada ha letto il testo letterario in chiave di inconscio collettivo e arcaico, di mito, di “natura”. Bello il personaggio di Kerima donna tutta fame, animalità, corpo, misteriosa nella sua torbida lussuria. Rifatto da Gabriele Lavia nel 1996 con Monica Guerritore» (Morandini).
Film vietato ai minori di anni 14
venerdì 11
ore 17.00
Mafioso (1962)
Regia: Alberto Lattuada; soggetto:Bruno Caruso;sceneggiatura: Marco Ferreri, Raphael Atzcona, Age [Agenore Incrocci] e [Furio] Scarpelli, Alberto Lattuada; direttore della fotografia: Armando Nannuzzi; architetto scenografo: Carlo Egidi; costumi: Angela Sammaciccia; musica: Piero Piccioni; montaggio: Nino Baragli; interpreti: Alberto Sordi, Norma Bengell, Gabriella Conti, Ugo Attanasio, Carmelo Oliviero, Lily Bistrattyn; origine: Italia; produzione: Compagnia Cinematografica Cervi; durata: 104′
«Mafioso è la storia del recupero di un uomo che aveva dimenticato di essere un “picciotto”: trapiantato a Milano, inserito in una grande industria, pensava di essersi purificato grazie questa lontananza dalla Sicilia. È la storia di un carattere, è la storia della viltà, della paura: come in tante altre commedia all’italiana si è preso un prototipo analizzarlo e metterlo nudo. […] Non riesco a pensare Mafioso senza [Sordi]. Credo che senza Sordi, Gassman, Manfredi, Tognazzi, Mastroianni, sarebbe stato difficile imporre in Italia e all’estero queste commedie. Non è un ridimensionamento del ruolo dello sceneggiatore: è che la mediazione di questi attori è tale da rendere manifesto il pensiero originario, l’idea di partenza, che quasi sempre nasce da un fatto vero. Comunque Mafioso era nato senza di lui. È stato De Laurentiis, col copione in mano, a pensare a Sordi. Se c’è una cosa che Sordi rappresenta magnificamente, negli aspetti drammatici e disgustosi, è la paura, la vigliaccheria, la meschinità, la piccolezza» (Lattuada).
ore 19.00
La mandragola (1965)
Regia: Alberto Lattuada; soggetto: dalla commedia omonima (1518) di Niccolò Machiavelli; sceneggiatura: Luigi Magni, Stefano Strucchi, A. Lattuada; fotografia: Tonino Delli Colli; architetto scenografo: Carlo Egidi; arredamento: Massimo Tavazzi, Umberto Turco; costumi: Danilo Donati; musica: Gino Marinuzzi Jr.; montaggio: Nino Baragli; interpreti: Rosanna Schiaffino, Philippe Leroy, Romolo Valli, Nilla Pizzi, Armando Bandini, Totò; origine: Italia/Francia; produzione: Arco Film, Lux C.C.F.; durata: 102′
«L’angolo visuale dal quale è osservata la storia di Callimaco, il giovinotto che con l’aiuto di un parassita, d’un frate e della madre di Lucrezia, e il favore di Nicia, marito stupidotto, riesce a godere delle grazie di madonna, è ora modificato. Ciò che in Machiavelli era nuda contemplazione, così ghiaccia da risultare caustica, e celebrazione dell’astuzia intesa come misura dell’intelligenza della storia nei confronti degli sciocchi e degli ignobili, in Lattuada diviene la maliziosa ironia d’un intellettuale e gusto della beffa licenziosa. Per certi aspetti siamo alle soglie del Settecento, più che ai primi del Cinquecento, nel regno del ridicolo più che del sardonico. Callimaco ha qualche carattere di Don Giovanni, Ligurio ha già qualcosa dell’intrigante cicisbeo, e fra Timoteo sposa all’avida furbizia di Pulcinella l’ipocrisia di Tartufo; appena Nicia conserva inalterati i segni della balordaggine, benché non ci sfiori a sufficienza il sospetto che forse anche lui ha capito la tresca, e sta al gioco perché più dell’onore gli preme di avere un figlio. A rigore soltanto Lucrezia si mantiene in quella zona astratta dove la metamorfosi da donna virtuosa ad adultera soddisfatta avviene per una rivalsa razionale contro l’infamia di un mondo corrotto. In altre parole, Lattuada ha sentito Machiavelli con una intelligenza moderna che si svolge lungo un arco che va, sbiadita la mordacità del fiorentino, dalla commedia di costume alla pochade, con in più un compiacimento per i primi piani delle nudità di Lucrezia che appartiene a un erotismo dal cinema piccante» (Grazzini).
Film vietato ai minori di anni 14
ore 21.00
Presentazione del libro di Emanuela Mascherini Glass ceiling: oltre il soffitto di vetro. Professionalità femminili nel cinema italiano (edimond, 2009)
Questo saggio analizza il ruolo della donna nell’universo del cinema, partendo proprio dalla ricerca delle motivazioni storiche e sociali dello stato di presenza-assenza della donna all’interno del settore cinematografico. L’autrice, pertanto ripercorre le fasi di questo dibattito che inizia negli anni Settanta sulla scia del femminismo, partendo dall’analisi della rappresentazione della donna nei film e dalla effettiva presenza femminile davanti e dietro la macchina da presa, fino ad affrontare la crisi del cinema italiano dagli anni Settanta ai giorni nostri, attraverso la letteratura specifica, la citazione di numerosi film, le interviste a donne che a vario titolo hanno lavorato e lavorano nel cinema. È così che man mano si delinea il fenomeno del cosiddetto glass ceiling, ovvero “soffitto di vetro”, espressione che, secondo le più recenti correnti di pensiero femminista americano, si riferisce alle situazioni in cui l’avanzamento di una persona all’interno della gerarchia di un’organizzazione è limitato, a dimostrazione della condizione affatto paritaria della donna nel cinema italiano. Glass ceiling: oltre il soffitto di vetro ha vinto il premio della sezione saggistica della 2ª edizione del Premio letterario Città di Castello. Ha avuto inoltre il patrocinio del Consiglio delle Pari opportunità della Toscana.
Emanuela Mascherini è nata a Firenze negli anni Ottanta. Nel 2005 si è diplomata come attrice al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma e fin da adolescente lavora come attrice in teatro, in televisione e nel cinema. Autrice di numerose opere di poesia, racconti e recensioni.
a seguire
L’amica (1969)
Regia: Alberto Lattuada; soggetto: Giovanna Gagliardo, Mario Cecchi Gori;sceneggiatura: A. Lattuada, Alberto Silvestri, Franco Verucci; fotografia: Sante Achilli; architetto: Enrico Tovaglieri; costumi: Luciana Marinucci; musica:Luis Enríquez Bacalov; montaggio: Sergio Montanari; interpreti: Lisa Gastoni, Gabriele Ferzetti, Elsa Martinelli, Frank Wolff, Raymond Lovelock, Jean Sorel; origine: Italia; produzione: Fair Film; durata: 105′
«Una bella donna dell’alta società milanese, tradita dal marito, decide di inventarsi un amante. Ma la prima con cui si confida è proprio l’amante vera dell’uomo da lei scelto, che non perde quest’ulteriore occasione per spettegolare. La bella allora si vendicherà seducendo non solo l’amico dell’amica, ma anche il marito di lei e il figlio adolescente» (Farinotti).
Film vietato ai minori di anni 14
sabato 12
ore 17.00
Sono stato io! (1973)
Regia: Alberto Lattuada; soggetto: A. Lattuada, Luigi Malerba;sceneggiatura: A. Lattuada, Ruggero Maccari; fotografia: Alfio Contini; scenografia e costumi: Enzo Del Prato; musica: Armando Trovaioli; montaggio: Sergio Montanari; interpreti: Giancarlo Giannini, Silvia Monti, Hiram Keller, Orazio Orlando, Georges Wilson, Patricia Chiti; origine: Italia; produzione: Dean Film; durata: 104′
«Nell’aula del processo a carico del mostro Biagio Solise, accusato di aver strangolato un soprano della Scala durante la Lucia di Lammermoor, c’è anche il regista Lattuga che prende appunti. Lo impersona, un po’ alla Hitchcock, lo stesso Alberto Lattuada, che mentre gira i suoi film si diverte a scherzare con gli amici (il presidente del tribunale, per esempio, è lo scrittore Piero Chiara). Anche Lattuada, come Lattuga, ha l’abitudine di annotarsi le cose; e i primi appunti che fece per Sono stato io!risalgono a oltre dieci anni fa, quando voleva far debuttare sullo schermo l’ancora inedito Adriano Celentano in un progetto dal titolo Essere un mostro. Quelle poche paginette, scritte con Luigi Malerba in margine alla realtà della cronaca nera, hanno poi trovato una dimensione di spettacolo nel copione di Ruggero Maccari, uno sceneggiatore che conosce l’arte di divertire; la carta decisiva l’ha giocata Giancarlo Giannini, in gran forma dopo le virtuosistiche esibizioni nei film di Lina Wertmüller. Film girato su un attore, Sono stato io! è il ritratto di un bullo di periferia che aspira alla fama fatua dei rotocalchi e della Tv: tanto che non esita ad accusarsi di un delitto, facendo ricadere su di sé ogni sorta di indizi, perché crede di avere in tasca un’assoluzione a sorpresa con relativi titoli in prima pagina» (Kezich).
ore 19.00
Cuore di cane (1976)
Regia: Alberto Lattuada; soggetto: dal racconto omonimo di Michail Bulgakov; trattamento: A. Lattuada, Mario Gallo; sceneggiatura: A. Lattuada; collaborazione alla sceneggiatura: Viveca Melander; fotografia: Lamberto Caimi; scenografia:Vincenzo Del Prato; costumi: Marisa D’Andrea; musica: Piero Piccioni; montaggio: Sergio Montanari; interpreti: Max von Sydow, Eleonora Giorgi, Mario Adorf, Gina Rovere, Cochi [Aurelio] Ponzoni, Adolfo Lastretti; origine: Italia/Germania Occidentale; produzione: Filmalpha, Corona Filmproduktion; durata: 110′
«Cominciamo da Cuore di cane di Michail Bulgakov, un romanzo che il celebre autore del Maestro eMargherita aveva ambientato a Mosca in quegli anni Venti in cui Lenin aveva ritenuto di dover “umanizzare” con una nuova politica economica (la NEP) il collettivismo seguito al “comunismo di guerra”. […] Il suo protagonista […] riusciva a trasformare un cane in un uomo […]. Un apologo, un grottesco, una favola esopica? Questo, e forse anche altro ancora perché nelle opere di Bulgakov […] i significati, le cifre, sono sempre molteplici e gli uni, spesso, complementari degli altri. Le “chiavi” di Cuore di cane, così, sono (o potrebbero essere) più d’una, e tutte egualmente fondate. […] Alberto Lattuada, traducendo fedelmente il romanzo, ha seguito soprattutto due chiavi; una, la “satira feroce”, dello strapotere della scienza e la sua sconfitta finale […]; l’altra – la si intuisce fra gli spazi bianchi della rilettura di Bulgakov, colmati con una interpretazione oltre la lettera, ma forse probabilmente nello spirito -, un atteggiamento più solidale nei confronti dell’uomo-cane, che, nel film […] è più scopertamente vittima di un’ingiustizia […]. Questa seconda chiave illumina, e dà calore, alle pagine più intense del film, quelle in cui Lattuada, sulle orme di una sua precedente esperienza con Gogol’ (Il cappotto), ritrova fervidamente tra le pieghe dell’azione il tema degli “umiliati e offesi”, così tipico della grande letteratura russa» (Rondi).
ore 21.00
Presentazione del libro L’inganno più dolce. Il cinema di Alberto Lattuada a cura di Silvia Tarquini (Centro Sperimentale di Cinematografia, Fondazione Pesaro Nuovo Cinema, 2009) e Alberto Lattuada. Il cinema e i film a cura di Adriano Aprà (Marsilio, 2009)
A seguire
La cicala (1980)
Regia: Alberto Lattuada; soggetto: dal romanzo omonimo [inedito] di Natale Prinetto e Marina D’Aunia; sceneggiatura: A. Lattuada, Franco Ferrini; fotografia: Danilo Desideri; scenografia: Vincenzo Del Prato; costumi: Gaia Romanini; musica: Fred Buongusto; montaggio: Sergio Montanari; interpreti: Anthony Franciosa, Virna Lisi, Renato Salvatori, Clio Goldsmith, Barbara De Rossi, Michael Coby [Antonio Cantafora]; origine: Italia; produzione: N.I.R. Film; durata: 101′
«La simpatia verso la figura emblematica che dà il titolo al film, come il tratteggiamento degli altri personaggi femminili, pur con tutto il carezzevole amore riversato su Wilma, rimanda a quella concezione un po’ imbarazzante della donna tanto frequente in Lattuada quanto pericolosa agli occhi del femminismo. Ma non diremmo che sia il caso di imbestialirsi per un racconto che, in questo caso, non fa altro che rivisitare formule acquisite appunto dal fotoromanzo a forti tinte passionali. Ben più importante è rilevare la magistrale architettura del film, il perfetto mosaico di immagini essenziali e liberamente articolate in impetuose cadenze (esempio mirabile il brano dell’omicidio e dell’interramento di “il Cipria”), la sua densa e martellante rappresentazione. Come esercizio di stile riportato alle fonti primarie del cinema, La Cicala non ha forse precedenti altrettanto convincenti in Italia» (Autera).
Film vietato ai minori di anni 14 – Ingresso gratuito