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Νihon Εiga. Storia del cinema giapponese dal 1945 al 1969
06 Marzo 2012 - 11 Marzo 2012
Tracciare un percorso che attraversi venticinque anni di storia sociale e cinematografica di una nazione non è mai una sfida da sottovalutare, ma diventa ancor più delicata quando si ha da maneggiare una materia ancora poco conosciuta e studiata nel nostro Paese come la produzione cinematografica giapponese, spesso ridotta a un’elencazione priva di vita dei quattro o cinque nomi di cui si ha una conoscenza diretta. Assumere come coordinate di partenza e di arrivo della rassegna il 1945 e il 1969 non è solo un modo per circoscrivere il periodo storico, ma equivale a scrutare il cinema giapponese da un punto di vista politico e sociale ben definito. Il 1945 è la data in cui si conclude la seconda guerra mondiale: si firmano i trattati di pace, vengono ritirati gli eserciti dai campi di battaglia sparsi per l’intero globo, si chiude (apparentemente) una parentesi storica sferzata da venti dittatoriali e desideri di egemonia. Ma per il Giappone non si tratta solo di questo: tra il 6 e il 9 agosto del 1945 due ordigni nucleari vengono sganciati dall’aeronautica statunitense sulle città di Hiroshima e Nagasaki, radendole al suolo e uccidendo all’istante centoventimila persone. Il computo delle vittime, comprendendo anche coloro che moriranno in seguito all’esposizione radioattiva, supererà le quattrocentomila persone. I bombardamenti atomici squarciano il petto della nazione, ma il colpo mortale lo assesta il comunicato diffuso via radio in cui l’imperatore Hirohito chiede al proprio popolo di non opporre ulteriore resistenza al nemico e di arrendersi. Il conflitto mondiale riesce laddove per più di mille anni tutti avevano fallito: il Giappone è conquistato e occupato da una potenza straniera. Gli Stati Uniti rimarranno nell’arcipelago per sei lunghi anni, fino al 1951, sotto la guida del generale Douglas MacArthur. Durante questo periodo accadranno sconvolgimenti inauditi per il popolo giapponese, a partire dalla rinuncia da parte di Hirohito della sua natura divina, e dall’accettazione di un ruolo puramente simbolico all’interno del sistema politico e sociale dello Stato.
Il Giappone del dopoguerra è una terra ferita, disillusa verso il potere, pentita di aver ceduto con tanta facilità al sogno di predominio sull’Asia che aveva animato il rigurgito militarista degli anni Trenta. Una nazione da ricostruire, partendo dalle fondamenta ma senza gettare via storia e tradizioni millenarie. Nell’arco di questi venticinque anni la produzione cinematografica giapponese diverrà una delle più imponenti colonne della Settima Arte, esportando maestri riconosciuti come Kenji Mizoguchi, Yasujirō Ozu, Mikio Naruse e Akira Kurosawa e dando i natali tanto a sperimentatori del linguaggio (Nagisa Ōshima, Shōhei Imamura, Toshio Matsumoto) quanto a splendidi fautori del cinema popolare quali Seijun Suzuki, Ishirō Honda, Nobuo Nakagawa e Teruo Ishii.
Nelle cinque giornate di cinema giapponese, organizzate al Cinema Trevi dall’Associazione Culturale “Cinema senza frontiere” in collaborazione con la Cineteca Nazionale e con l’Istituto Giapponese di Cultura, e con il sostegno della Japan Foundation, sarà dunque possibile per il pubblico confrontarsi sia con i titoli più celebri del periodo, sia con opere spesso invisibili anche alle schiere di appassionati. Faranno da corollario due incontri sulla storia del cinema giapponese, con ospiti alcuni tra i principali esperti italiani dell’universo nipponico.
Programma a cura di Enrico Azzano e Raffaele Meale
 
martedì 6
ore 17.00
Il mio primo amore (1955)
Regia: Keisuke Kinoshita; soggetto e sceneggiatura: Keisuke Kinoshita, dal romanzo Nogiku no gotoki kimi nariki di Sachio Ito; fotografia: Hiroshi Kusuda, Hiroyuki Kusuda; scenografia: Kisaku Ito; musica: Chuji Kinoshita; interpreti: Noriko Arita, Chishu Ryu, Haruko Sugimura, Shinji Tanaka, Kumeko Urabe, Keiko Yukishiro; origine: Giappone; produzione: Shochiku; durata: 100′
Un uomo anziano, mentre sta remando lungo un fiume sulla sua barca, scorge un campo di margherite. Questa visione, come le madeleinette di Marcel Proust, lo riportano indietro con la memoria fino ai suoi quindici anni di età. Ritorna dunque con la mente al tempo passato con la cugina con cui era cresciuto e avrebbe desiderato sposare, trovando però la resistenza della famiglia e delle pressioni sociali. Keisuke Kinoshita firma uno dei suoi melodrammi più celebri, utilizzando uno stile naturalistico ma al contempo altamente emozionante. Al di là dell’accurata messa in scena di Kinoshita, sempre attento alla composizione dell’inquadratura e all’utilizzo della macchina da presa, il film regge gran parte del suo peso sulle spalle del cast, scelto con grande cura. L’anziano Masao è interpretato da Chishū Ryū, che si calò nella parte del settantatreenne protagonista pur avendo all’epoca delle riprese superato da poco i cinquant’anni: dopo aver esordito nel 1928 come attore feticcio di Yasujirō Ozu, Ryū lavorerà fino a novant’anni con autori del calibro di Akira Kurosawa, Yōji Yamada, Masaki Kobayashi, Hiroshi Inagaki, Yoshitaro Nomura, Paul Schrader e Wim Wenders. Masao da giovane e la sua amata Tomiko sono invece interpretati da Shinji Tanaka e Noriko Arita: il primo vivrà una gloria effimera durante gli anni della “Nuberu bagu” recitando in Racconto crudele della giovinezza di Nagisa Ōshima e L’isola nuda di Kaneto Shindō.
Copia proveniente dall’Istituto Giapponese di Cultura – Ingresso gratuito
 
ore 19.00
Conflagrazione – La fiamma del tormento (1958)
Regia: Kon Ichikawa; soggetto e sceneggiatura: Keiji Hasebe, Kon Ichikawa, Natto Wada, dal romanzo Il padiglione d’oro di Yukio Mishima; fotografia: Kazuo Miyagawa; scenografia: Yoshinobu Nishioka; musica: Toshirô Mayuzumi; montaggio: Shigeo Nishida; interpreti: Raizo Ichikawa, Tatsuya Nakadai, Ganjiro Nakamura, Yoichi Funaki, Tamao Nakamura, Jun Hamamura; origine: Giappone; produzione: Daiei; durata: 99′
«Il padiglione dorato del tempio Shukaku è la cosa più bella del mondo»: queste parole, pronunciate dal padre morente, spingono il giovane Goichi a recarsi a Kyoto per approfondire i suoi studi sul buddhismo. L’animo di Goichi è squarciato da due ricordi, la scoperta dell’infedeltà della madre nei confronti del marito e l’effetto devastante che tale notizia ha avuto sull’uomo, spingendolo alla morte. La visita della madre, che lo sprona negli studi, spinge il ragazzo in una spirale di follia. Kon Ichikawa, maestro riconosciuto del cinema giapponese del dopoguerra grazie soprattutto al suo capolavoro L’arpa birmana, adatta per lo schermo il romanzo Il padiglione d’oro del celebre romanziere Yukio Mishima. Presentato all’epoca alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, Conflagrazione si segnala come una delle messe in scena più rigorose e complesse del regista, che sperimenta una stratificata struttura a flashback. Memorabile il finale “incendiario”.
Copia proveniente dalla Cineteca di Milano
 
ore 21.00
I sette samurai (1954)
Regia: Akira Kurosawa; soggetto e sceneggiatura: Akira Kurosawa, Shinobu Hashimoto, Hideo Oguni; fotografia: Asakazu Nakai; scenografia: Takashi Matsuyama; musica: Fumio Hayasaka; montaggio: Akira Kurosawa; interpreti: Toshiro Mifune, Takashi Shimura, Keiko Tsushima, Yukiko Shimazaki, Kamatari Fujiwara, Daisuke Kato, Isao Kimura; origine: Giappone; produzione: Toho; durata: 188′
Giappone, 1587. Negli ultimi anni del periodo Azuchi-Momoyama un piccolo villaggio di contadini subisce le angherie di una banda di predoni: per evitare che questi saccheggino una volta di più le loro case, i contadini cercano aiuto tra i rōnin, i samurai rimasti senza un signore da servire. Dopo vari tentativi riescono a convincere il rōnin Kambei Shimada ad assisterli, nonostante non abbiano denaro con cui pagarlo. Kambei ritiene il caso di assoldare altre sei samurai per affrontare i predoni, e a loro si unisce anche il contadino Kikuchiyo, sbruffone e coraggioso. La battaglia per la difesa del villaggio ha inizio. Monumentale jidaigeki (i film ambientati nel medioevo giapponese), I sette samurai è una delle opere fondamentali del cinema giapponese, e non solo, degli ultimi sessant’anni: Kurosawa vi condensa all’interno gran parte della sua poetica, a partire ovviamente dall’emblematico personaggio di Kikuchiyo, interpretato da un indimenticabile Toshirō Mifune. Imitato e omaggiato in ogni dove e rifatto a Hollywood da John Sturges nel 1960 con il titolo I magnifici sette, I sette samurai si distingue per la capacità di muoversi con eleganza in bilico sul crinale che divide il cinema d’autore dall’approccio popolare. Ne esistono varie versioni, che oscillano tra i 160 e i 207 minuti di durata.
Copia proveniente dalla Cineteca di Milano
 
mercoledì 7
ore 17.00
Carmen torna a casa (1951)
Regia: Keisuke Kinoshita; soggetto e sceneggiatura: Keisuke Kinoshita; fotografia: Hiroyuki Kusuda; musica: Chuji Kinoshita, Toshiro Mayuzumi; colonna sonora non originale: Georges Bizet; interpreti: Hideko Takamine, Masao Wakahara, Chikage Awashima, Toshiko Kobayashi, Eiko Miyoshi, Chieko Higashiyama, Takeshi Sakamoto; origine: Giappone; produzione: Shochiku; durata: 103′
Una giovane ragazza che ha lasciato il suo piccolo villaggio per affrontare l’eccitante avventura di confrontarsi con la metropoli Tokyo, fa ritorno a casa anni dopo alcuni anni. Tutto sembra procedere per il meglio, ma uno scandalo è dietro le porte: i suoi concittadini infatti ignorano che Carmen per mantenersi a Tokyo abbia scelto la professione della spogliarellista. Tra i molti motivi di interesse contenuti in Carmen torna a casa spicca il fatto che si tratta della prima pellicola giapponese prodotta a colori, attraverso il procedimento studiato appositamente dalla Fuji e ribattezzato Fujicolor: ne viene fuori un pastiche ipercolorato, che sposa il comico al musical per portare a termine una acida presa in giro del moralismo nipponico. Keisuke Kinoshita, da sempre pronto ad attaccare i falsi moralizzatori, i bigotti e gli ipocriti, dirige la sua commedia più sfrenata e irriverente, mostrando un volto sorprendente del Giappone a ridosso della fine dell’occupazione statunitense.
Copia proveniente dall’Istituto Giapponese di Cultura – Ingresso gratuito
 
ore 19.00
La donna di sabbia (1964)
Regia: Hiroshi Teshigahara; soggetto e sceneggiatura: Kobo Abe, Eiko Yoshida, dal romanzo La donna di sabbia di Kobo Abe; fotografia: Hiroshi Segawa; musica: Toru Takemitsu; montaggio: Fusako Shuzui; interpreti: Eiji Okada, Kyoko Kishida, Hiroko Ito, Koji Mitsui, Sen Yano, Ginzo Sekiguchi; origine: Giappone; produzione: Toho, Teshigahara Productions; durata: 123′
Uno scienziato che svolge ricerche sugli insetti in un deserto si trova a chiedere ospitalità agli abitanti di un villaggio. Questi lo conducono nella capanna di una donna che si trova in fondo a una depressione sabbiosa raggiungibile solo attraverso l’uso di una scala di corda. Nel corso della notte la scala viene rimossa. L’uomo, a questo punto intrappolato, cerca inutilmente una via di fuga. Disilluso dall’insuccesso, è a questo punto combattuto tra il desiderio di ritrovare la libertà e l’amore che nutre verso la donna. Titolo indispensabile del cinema giapponese dei primi anni Sessanta, La donna di sabbia rappresenta l’apice del percorso artistico di Hiroshi Teshigahara. La trama, pressoché irraccontabile, non riesce a rendere a dovere lo stupefacente nitore dell’immagine, ottenuto grazie alla fotografia in bianco e nero di Hiroshi Segawa (al lavoro, oltre che in altri film di Teshigahara, nel duro e doloroso Under the Flag of the Rising Sun di Kinji Fukasaku); attraverso una messa in scena simbolica e rarefatta, Teshigahara riesce a scavare fino in fondo l’umanità contemporanea, donando un nuovo livello di consapevolezza al corpo e alla relazione materiale tra esseri umani. A distanza di quasi cinquant’anni ancora in grado di lasciare a bocca aperta lo spettatore.
 
ore 21.15
Vita di O-haru, donna galante (1952)
Regia: Kenji Mizoguchi; soggetto e sceneggiatura: Kenji Mizoguchi, Yoshikata Yoda, dal romanzo Koshoku ichidai onna di Saikaku Ihara; fotografia: Yoshimi Hirano, Yoshimi Kono; scenografia: Hiroshi Mizutani; musica: Ichiro Saito; montaggio: Toshio Goto; interpreti: Kinuyo Tanaka, Tsukie Matsuura, Ichiro Sugai, Toshiro Mifune, Toshiaki Konoe, Kiyoko Tsuji; origine: Giappone; produzione: Shintoho, Koi; durata: 148′
Nel corso della visita a un tempio, O-Haru, un’anziana prostituta, ripercorre gli infausti avvenimenti che hanno caratterizzato la sua vita. Il suo primo amore, un servo, viene giustiziato costringendo lei e la sua famiglia all’esilio da Kyoto; la donna sceglie la via del suicidio ma fallisce e viene scelta da un signore locale come madre per suo figlio, che le viene però strappato alla nascita; suo padre la vende a un ricco signore per ripianare i suoi debiti ma i contrasti con la padrona di casa la costringono ad abbandonare il tetto nuziale; trova un nuovo marito, ma viene ucciso in una rapina; O-Haru non riesce neanche a diventare suora, e decide alla fine di intraprendere la via della prostituzione. Ritratto di donna tra i più sinceri ed emozionanti dell’intera storia del cinema, O-Haru è l'(anti)eroina per eccellenza del cinema di Kenji Mizoguchi: la sua vita di vessazioni diventa l’emblema stesso della poetica del cineasta, che congela l’azione in lunghi piani-sequenza. È universalmente considerato uno dei più influenti film giapponesi di ogni tempo.
 
giovedì 8
ore 17.00
Gli stretti della fame (1964)
Regia: Tomu Uchida; soggetto e sceneggiatura: Naoyuki Suzuki, dal romanzo Kiga kaikyo di Tsutomu Minakami; fotografia: Hanjiro Nakazawa; scenografia: Mikio Mori; musica: Isao Tomita; montaggio: Yoshiki Nagasawa; interpreti: Rentaro Mikuni, Sachiko Hidari, Koji Mitsui, Junzaburo Ban, Ken Takakura, Akiko Kazami; origine: Giappone; produzione: Toei; durata: 183′
Dopo aver rapinato e incendiato un’agenzia di pegni, tre malviventi fuggono da un violento tifone che si abbatte nella zona circostante. Di essi ne sopravvive solo uno, Takichi Inukai, che trova rifugio presso l’umile geisha Yae, cui dona parte della refurtiva. Dopo undici anni Inukai ha cambiato nome ed è divenuto un rispettabile uomo d’affari, ma Yae riesce per caso a rintracciarlo. L’uomo, temendo che la geisha possa denunciarlo, decide di assassinarla, ma in questo modo attira su di sé le attenzioni della polizia. Tomu Uchida è un regista pressoché sconosciuto in Italia, tra i principali autori dei cosiddetti “film di tendenza”, in cui negli anni Venti e Trenta si cercava di innestare nel cinema giapponese il germe della critica sociale. Lo stesso destino è toccato purtroppo anche a Gli stretti della fame, uno dei noir più avvincenti e fiammeggianti degli anni Sessanta: qui la riflessione socio-politica si lega a uno scandaglio della spiritualità dei personaggi e sul libero arbitrio come unico viatico per la materializzazione di quello che viene comunemente definito “destino”. Gli stretti della fame è un’opera fluviale che alterna una messa in scena classica a vere e proprie deflagrazioni avanguardiste, a partire dall’uso del freeze frame e delle immagini in negativo: un gioiello perduto assolutamente da riscoprire.
Copia proveniente dall’Istituto Giapponese di Cultura – Ingresso gratuito
 
ore 20.10
La stagione del sole (1956)
Regia: Ko Nakahira; soggetto e sceneggiatura: Shintaro Ishihara, dal suo romanzo Kurutta kajitsu; fotografia: Shigeyoshi Mine; scenografia: Takashi Matsuyama; musica: Masaru Sato, Toru Takemitsu; interpreti: Masahiko Tsugawa, Yujiro Ishihara, Mie Kitahara, Youko Benisawa, Harold Conway, Ayuko Fujishiro, Eiko Higashitani; origine: Giappone; produzione: Nikkatsu; durata: 86′
Natsushisa e Haruji sono due fratelli, ricchi e annoiati: il primo stuzzica costantemente il fratello più piccolo riguardo le ragazze. Arrivano in una piccola stazione balneare per passare un’estate al mare: fin da subito Haruji conosce una giovane ragazza di cui si innamora al punto da non riuscire più a pensare ad altro. Quando ha l’occasione di incontrarla di nuovo, la invita a una festa che si terrà a casa di un loro amico, i cui genitori stanno divorziando. Inizia un lento corteggiamento, ostacolato dal desiderio di conquista di Natsushisa. Traendo ispirazione dall’omonimo e rivoluzionario romanzo di Shintarō Ishihara (anche autore della sceneggiatura e attuale sindaco di Tokyo) pubblicato nel 1955, Kō Nakahira firma un’opera destinata a cambiare drasticamente la prassi produttiva del cinema giapponese. Dal momento della sua uscita, e grazie al lancio pubblicitario del libro divenuto nel giro di pochi mesi un best-seller, La stagione del sole illuminerà, per almeno un lustro, l’approccio stilistico ed estetico dei giovani registi nipponici, dando il là a quel movimento che verrà ribattezzato “Nuberu bagu”. Il nichilismo, la rappresentazione di una gioventù davvero “bruciata” e irredenta, l’utilizzo di un linguaggio diretto e crudo, saranno tutti elementi destinati a divenire dei veri e propri topos nell’immaginario cinefilo di Tokyo e dintorni. Ancora oggi, a distanza di più di cinquant’anni dalla sua realizzazione, un pugno nello stomaco di rara efficacia.
 
ore 21.45
Harakiri (1962)
Regia: Masaki Kobayashi; soggetto e sceneggiatura: Shinobu Hashimoto, dal romanzo Ibun ronin-ki di Yasuhiko Takiguchi; fotografia: Yoshio Miyajima; scenografia: Shigemasa Toda; musica: Tôru Takemitsu; montaggio: Hisashi Sagara; interpreti: Tatsuya Nakadai, Akira Ishihama, Shima Iwashita, Tetsuro Tanba, Masao Mishima, Ichiro Nakatani; origine: Giappone; produzione: Shochiku; durata: 133′
Agli inizi del XVII secolo, la pacificazione violenta del Giappone ad opera dello shogunato ha provocato la caduta di molti signori della provincia e la conseguente creazione di un esercito di rōnin privi di impiego e costretti a muoversi verso le città. Nel 1630 uno di questi, Hanshiro Tsugumo, si presenta alle porte della casa Iyi, nei pressi della città di Edo. Al cospetto dell’intendente della nobile famiglia chiede che, data la situazione di disgrazia e miseria in cui si trova dopo la caduta del signore di Geishu, gli sia concesso, nella dimora, un luogo in cui compiere onorevolmente harakiri. Con l’intenzione di dissuaderlo, l’intendente gli narra della sorte di un altro rōnin, Motome Chijiiva, presentatosi qualche tempo addietro con la stessa richiesta. Nella circostanza, il consiglio di famiglia, per contrastare la pratica ormai diffusa, e ritenuta disonorevole, di minacciare il suicidio rituale nella speranza di ottenere un impiego o qualche elemosina, aveva deciso di assecondare la sua volontà. Motome, in ossequio al codice d’onore del samurai, era stato costretto a compiere un harakiri atroce e disonorevole con l’arma con cui si era presentato, una spada di bambù, il che gettava un’ombra sulle reali intenzioni del giovane guerriero. Masaki Kobayashi firma un jidaigeki che ha però il coraggio e la volontà di utilizzare il passato del Giappone come metafora della contemporaneità: un’operazione dal notevole impatto emotivo, grazie anche all’elegante messa in scena orchestrata dal regista. Vincitore del Premio Speciale della Giuria al Festival di Cannes del 1963, il film è stato omaggiato nel 2011 con un remake in 3D da Takashi Miike.
 
venerdì 9
ore 17.00
Il diario di Sueko (1959)
Regia: Shōhei Imamura; soggetto e sceneggiatura: Ichiro Ikeda, Shohei Imamura; fotografia: Shinsaku Himeda; interpreti: Hiroyuki Nagato, Kayo Matsuo, Takeshi Okimura, Akiko Maeda, Ko Nishimura, Yoshio Omori, Taiji Tonoyama; origine: Giappone; produzione: Nikkatsu; durata: 101′
È la storia di quattro fratelli e sorelle di età tra i dieci e i venti anni, rimasti orfani a vivere di stenti in una cittadina mineraria nel Giappone meridionale, dopo la fine della seconda guerra mondiale. Sueko è la più piccola e il film si basa sul suo diario; il più grande, Kiichi, ha 20 anni, Yoshiko, la sorella, ne ha 16 e Takaichi ne ha 13 (ed è quindi “nianchan”, ovvero il secondo fratello). Dopo numerose difficoltà, i quattro fratelli sono costretti a separarsi: Kiichi va a lavorare in una fabbrica di Nagasaki; Yoshiko trova lavoro in una macelleria di un’altra città e Takaichi in un’azienda per l’essiccazione del pesce, mentre la piccola Sueko viene affidata a Kitamura, l’uomo che gestisce i bagni pubblici. Quando ha racimolato la somma necessaria, Takaichi decide di andare a Tokyo. Sueko resta sola, ma “nianchian” ritorna al villaggio in breve tempo, determinato a studiare per riuscire là dove il padre e il fratello non poterono a causa della loro povertà. Quando pone la firma in calce al suo quarto lungometraggio, Shōhei Imamura non è ancora un autore conclamato: la Nikkatsu, la sua casa di produzione, ne teme l’indole anarcoide e gli concede solo regie di soggetti “addomesticabili”. Il diario di Sueko, noto anche con il titolo Il secondo fratello (traduzione letterale dell’originale giapponese Nianchan), rientra quasi perfettamente in questa categoria, ma già si scorge in filigrana l’attenzione per il sociale che prenderà piede di lì a poco nella poetica del cineasta, all’epoca trentatreenne. Sincero ritratto di una famiglia disgregata dalla situazione economica del Giappone, il film merita di essere riscoperto dal pubblico contemporaneo.
Copia proveniente dall’Istituto Giapponese di Cultura – Ingresso gratuito
 
ore 19.00
Rashōmon (1951)
Regia: Akira Kurosawa; soggetto e sceneggiatura: Akira Kurosawa, Shinobu Hashimoto, da due racconti di Ryunosuke Akutagawa; fotografia: Kazuo Miyagawa; scenografia: Takashi Matsuyama; musica: Fumio Hayasaka; montaggio: Akira Kurosawa; interpreti: Toshiro Mifune, Machiko Kyo, Masayuki Mori, Takashi Shimura, Minoru Chiaki, Kichijiro Ueda; origine: Giappone; produzione: Daiei; durata: 88′
In una giornata di pioggia incessante, un boscaiolo, un monaco e un passante si fermano a parlare di un fatto increscioso avvenuto qualche tempo prima. Si tratta dell’uccisione di un samurai, avvenuta per mano di un brigante che avrebbe anche abusato della moglie dell’uomo. La storia viene raccontata da quattro testimoni, fra cui il brigante-violentatore, la moglie del samurai, la vittima (che parla attraverso un medium) e infine un narratore, che pare sia il più obiettivo dei testimoni. Le versioni sono contrastanti e non si capisce bene quale sia la verità. Attraverso un illuminante ricorso al flashback, Akira Kurosawa propone una riflessione rimasta forse insuperata sul punto di vista e sull’incertezza della verità: il film trae ispirazione da due racconti di Ryūnosuke Akutagawa, Nel bosco e Rashōmon, tra i migliori esempi di letteratura giapponese dei primi anni del Ventesimo Secolo. Nonostante la casa di produzione non avesse alcuna fiducia nel film, al punto da pensare di non farlo neanche uscire nei cinema giapponesi dopo aver visto un primo montato, Rashōmon attirò l’attenzione dell’italiana Giuliana Stramigioli, all’epoca docente di italiano presso l’università degli Studi Stranieri di Tokyo: appassionatasi al film, la Stramigioli consigliò a Kurosawa di mandarlo in visione alla direzione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, per essere selezionato. Kurosawa era dubbioso a riguardo, ma si fidò del parere della docente: il film, selezionato in concorso per l’edizione del 1951, vinse il Leone d’oro, anticamera all’oscar per il miglior film straniero ottenuto nel febbraio dell’anno successivo. Il cinema giapponese era arrivato in Occidente.
 
ore 20.45
Tavola rotonda su Il cinema giapponese tra gli anni Cinquanta e la contestazione con Marco Del Bene, Donatello Fumarola, Enrico Ghezzi, Marco Müller, Roberto Silvestri
 
a seguire
L’isola nuda (1960)
Regia: Kaneto Shindo; soggetto e sceneggiatura: Kaneto Shindo; fotografia: Kiyomi Kuroda; musica: Hikaru Hayashi; montaggio: Toshio Enoki; interpreti: Nobuko Otowa, Taiji Tonoyama, Shinji Tanaka, Masanori Horimoto; origine: Giappone; produzione: Kindai Eiga; durata: 94′
Quasi completamente muto, L’isola nuda è, secondo le parole del regista, «un’elegia del lavoro, un inno alla forza di volontà del singolo». I protagonisti della pellicola sono un uomo e una donna, marito e moglie, che vivono con i due figli su un’isola, dove coltivano la terra. Per sopravvivere, i protagonisti ogni giorno attraversano il mare e prelevano dalla terraferma l’acqua, necessaria al loro sostentamento e all’irrigazione delle coltivazioni. Quando il figlio maggiore si ammala, il padre attraverserà nuovamente il mare, questa volta alla ricerca di un medico. In pochi nel 1960 avrebbero immaginato che L’isola nuda, una pellicola priva del tutto di dialoghi e il cui nucleo pulsante è la ciclicità della vita contadina, sarebbe divenuta un enorme successo al botteghino, consentendo di salvare dalla bancarotta la piccola società indipendente che l’aveva prodotta, la Kindai Eiga Kyokai (Associazione del Cinema Nuovo). Tra gli autori più fieramente indipendenti del cinema giapponese, Kaneto Shindo cerca qui di portare a termine, usando le stesse parole del regista, «un poema cinematografico che cerca di raffigurare la vita di esseri umani che lottano come formiche contro le forze della natura». «Un tranche de vie, di superba fattura formale, della vita di una famiglia che vive su un isola, a pochi chilometri di distanza dalla terraferma. Shindo, che ben conosce la lezione del cinema di Ejzenstejn, riprende la vita rurale esaltandone ogni piccolo gesto, e si sofferma a lungo sulla resa della fatica del lavoro, lasciando che i due protagonisti principali risalgano innumerevoli volte dal mare con i loro secchi ricolmi d’acqua, entrando sempre dal basso ma a testa alta nell’inquadratura, fino ad occuparla del tutto. La staticità della messinscena mette continuamente al centro del discorso l’uomo, la sua forza di volontà (e anche quella fisica) e l’insopprimibile desiderio di sopravvivenza. Gli unici momenti in cui la macchina da presa riesce a librarsi sono le inquadrature aeree, che aprono e chiudono il film e mirano a sottolineare l’isolamento in cui vivono i personaggi e a rafforzare quel senso di circolarità temporale che caratterizza la loro esistenza» (Daria Pomponio).
Copia proveniente dall’Istituto Giapponese di Cultura – Ingresso gratuito

 

domenica 11
ore 17.00
Ayako (1965)
Regia: Heinosuke Gosho; soggetto e sceneggiatura: Hideo Horie, dal romanzo Reiba no onna di Hajime Ogawa; fotografia: Sozaburo Shinomura; scenografia: Totetsu Hirakawa; musica: Yasushi Akutagawa; interpreti: Jitsuko Yoshimura, Terada Minoru, Keizo Kawasaki, Taiji Tonoyama, kin Sugai, Yoshio Yoshida, Eijiro Tono; origine: Giappone; produzione: Shochiku; durata: 98′
Ayako, figlia di pescatori poveri, è venduta a una casa di tolleranza. Conosce Kanjiro, timido e giovane studente di cui si innamora, ricambiata. Ma quando il ragazzo scopre che suo padre è uno dei più assidui frequentatori della casa e della sua ragazza, disgustato, si arruola nell’esercito e parte per il fronte. Heinosuke Gosho è un altro dei grandi nomi perduti del cinema giapponese: autore di quasi un centinaio di film (di cui più di quaranta diretti durante il periodo del muto) portati a termine in quarantatré anni di carriera, Gosho ha attraversato le diverse stagioni dell’industria della Settima Arte a Tokyo adattandosi di volta in volta alle necessità, senza smarrire però uno sguardo attento e partecipe sull’umanità. Ed è proprio sotto questo punto di vista che è possibile rintracciare l’importanza di Ayako, la sua quint’ultima regia: un afflato empatico e sanamente popolare anima il film, pedinando la triste vita della povera protagonista, schiacciata dal mondo che la circonda. Un film praticamente introvabile e da riscoprire, anche per rendere il doveroso omaggio a un regista di cui le giovani generazioni hanno perduto le tracce.
 
ore 18.45
Porci, geishe e marinai (1961)
Regia: Shohei Imamura; soggetto e sceneggiatura: Hisashi Yamanouchi, Shohei Imamura; fotografia: Shinsaku Himeda; scenografia: Kimihiko Nakamura; musica: Toshiro Mayuzumi; montaggio: Mutsuo Tanji; interpreti: Hiroyuki Nagato, Jitsuko Yoshimura, Yoko Minamida, Masao Mishima, Tetsuro Tanba, Shiro Osaka; origine: Giappone; produzione: Nikkatsu; durata: 108′
Nel porto di Yokosuka, città situata nella baia di Tokyo e dove vi è una grande base militare americana, una banda di yakuza cerca di trarre profitto dall’allevamento di maiali nutriti con i rifiuti della stessa base. L’elemento più giovane e ingenuo del gruppo è Kinta, che crede fermamente di poter fare dei soldi con questo bislacco affare, una convinzione supportata anche dalla reverenza e dalla fiducia che nutre nei confronti del suo capo, un gangster dall’aura di maudit romantico, ma continuamente alle prese con problemi intestinali. Haruko è la ragazza di Kinta, una barista che eviterebbe volentieri di seguire la via della perdizione (e della prostituzione) che ha intrapreso la sorella e prova a convincere Kinta a trasferirsi nella città industriale di Kawasaki, per lavorare in fabbrica. «Il quinto film di Imamura nasce sull’onda delle proteste del 1959 contro la temuta proroga del decennale Trattato di sicurezza nippo-americano che venne poi in effetti sostanzialmente confermato l’anno successivo, assicurando la permanenza in Giappone di basi militari statunitensi. Opera giovanile e “kurosawiana”, come ammesso in seguito dallo stesso regista, Porci, geishe e marinai è il ritratto feroce e volutamente sopra le righe dell’abbrutimento dei giapponesi di fronte all’occupante americano. Lontano da ogni forma di accademismo, Imamura è in parte debitore dei noir alla Melville, ma più ancora sembra raccogliere la lezione de L’infernale Quinlan di Orson Welles, giocando per l’appunto sul grottesco e barocco contrappunto di bianchi e neri e sulla dialettica immediata degli opposti in un mondo ormai abbrutito dall’abiezione. Ma, al di là delle possibili filiazioni, è evidente la necessità dello sguardo e del racconto, l’urgenza di mettere in scena il proprio popolo e la vigorosa vis polemica di un regista la cui coerenza è data, nel corso della sua carriera, oltre che dal costante rigore dello stile, anche e soprattutto dal suo atteggiamento etico» (Alessandro Aniballi).
 
ore 20.45
Tavola rotonda su L’evoluzione dell’industria animata nel Giappone del dopoguerra con Oscar Cosulich e Luca Della Casa
 
a seguire
Acque torbide (1953)
Regia: Tadashi Imai; soggetto e sceneggiatura: Toshiro Ide, Yoko Mizuki, da tre racconti di Ichiyō Higuchi; fotografia: Shunichiro Nakao; scenografia: Totetsu Hirakawa; musica: Ikuma Dan; interpreti: Ken Mitsuda, Yatsuko Tan’ami, Akiko Tamura, Hiro Kumon, Hiroshi Akutagawa, Susumu Tatsuoka; origine: Giappone; produzione: Bungakuza, Shinseiki; durata: 130′
Storie diverse si inseguono in questo cupo spaccato della società. Nella prima una ragazza torna improvvisamente nel cuore della notte nella casa dei genitori in cui è cresciuta. Spiega loro che non può più vivere con suo marito, un uomo ricco per colpa del quale la sua famiglia si è indebitata. Dopo una lunga e dolorosa discussione, i genitori la convincono a tornare a casa. Sulla strada di casa l’uomo che guida il risciò si rivela essere un vecchio compagno di scuola e i due iniziano a ricordare i giorni andati. Nella seconda storia Mine è una cameriera nella casa di una donna anziana angariata da un figlio ozioso e perdigiorno, che assilla la madre e il suo nuovo marito con la richiesta di denaro in grado di coprire le sue ingenti perdite al gioco. L’unico parente ancora in vita di Mine è suo zio, che l’ha cresciuta e ora che è gravemente ammalato avrebbe bisogno di denaro per pagare uno strozzino. Mine promette di farsi prestare i soldi dalla sua datrice di lavoro ma, nonostante l’anziana donna inizialmente accetti, decide di rompere improvvisamente il patto con l’arrivo del nuovo anno. A Mine resta solo la possibilità di rubare i soldi da portare all’amato zio. Tadashi Imai, che con questo film fu accolto come nuovo grande autore del cinema giapponese al Festival di Cannes del 1954, prima di essere rapidamente dimenticato quand’era ancora in vita, delinea un progetto ambizioso: descrivere la condizione della donna giapponese durante la Restaurazione Meiji. Il risultato è un’opera complessa, stratificata, non sempre facile da interpretare e adagiata su un ritmo contemplativo che non fa altro che acuire il senso di disgusto nei confronti delle vessazioni cui le protagoniste del film devono andare incontro.
Copia proveniente dall’Istituto Giapponese di Cultura – Ingresso gratuito
 

 

 

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