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Dallo Zeman foggiano a Rodolfo Valentino. Ritratti sghembi di due miti elaborati in Puglia
28 Marzo 2013 - 28 Marzo 2013
«Ho sempre percepito il volto di Zeman come un’anomalia seducente, una scheggia di cinemascope fluttuante nel piatto flusso catodico delle trasmissioni sportive. Quel ciuffo biondo spento, lo sguardo gelido, la mascella serrata. Le sue pause stranianti, che spiazzavano puntuali la vacua concitazione della stampa. Lo stoicismo rigoroso, immutato negli anni? Quattro anni fa riuscii a strappargli un appuntamento in un bar, nei pressi di casa sua. Nel cuore di Collina Fleming, a Roma Nord, osservavo rapito quella faccia istoriata, quel pianeta semovente, impreziosito dalle ingiurie degli anni. Gli proposi un documentario sul suo periodo foggiano. “Sembra Clint Eastwood diretto da Kaurismaki”, pensai durante una sua lunga pausa, mentre stringeva gli occhi da capo apache su di me. Mi stava studiando. “La mia maestra elementare mi diceva che dovevo fare cinema. Per via delle mie espressioni” mi sussurrò cavernoso, sorridendo cauto. Lo interpretai come un assenso e cominciammo le riprese. Raccontai così l’epopea brancaleonesca del Foggia zemaniano, mescolando interviste a curiose immagini di repertorio, provenienti dalle ruggenti tv locali daune. Cercai di eludere le tentazioni agiografiche, affogandole nell’ironia. Per rievocare la vicenda rinunciai all’intervista classica e collocai il boemo e il patron sull’ampio divano di un salotto pariolino. Un set che mi ricordava il finale di C’era una volta in America, sede del dialogo decisivo tra Noodles e il senatore Bailey. Due vecchi amici che si confrontano sulle opposte aspettative esistenziali. La formula funzionò. Casillo tracimava corpulento sul divano, stretto nella sua mise scorsesiana: giacca e cravatta nera, camicia bianca con iniziali ricamate, scarpe lucide. Zeman, immoto e composto, lo osservava con divertita perplessità, con il solito contegno da levriero annoiato. Congelava le emorragie verbali di Casillo con frasi lapidarie. Ne irrideva, a colpi di monosillabi sussurrati, i vittimismi meroliani e la malcelata brama di denaro. Esibirono tempi comici perfetti, da coppia consumata.
Dopo l’uscita del documentario Zemanlandia, nel settembre 2009, la realtà sembrò mimare la rievocazione. Nell’estate del 2010 Casillo riprese la società, Zeman superò la nausea per la serie C e si lasciò strappare al suo esilio. La piazza foggiana si abbandonò unanime all’euforia da revival. Decisi di raccontare il ritorno in panchina del boemo. Avevo l’occasione di pedinarlo nella sua quotidianità lavorativa: sui campi, nei lunghi viaggi in pullman, negli alberghi, nei tempi dilatati delle vigilie. Ho spesso ripreso solo la panchina, disinteressandomi al gioco, fin troppo visibile, documentato da tanta televisione. Ho lasciato come unico sfondo sonoro una concitata radiocronaca locale. La panchina zemaniana, inquadrata in lunghi piani sequenza, si è rivelata un microcosmo ricco di sfumature».
«Rodolfo Valentino, primo grande divo del cinema muto, nacque a Castellaneta, piccolo centro rurale pugliese. Morì trentenne nel 1926, all’apice del successo. Nel suo paese natale, ancora oggi, sono in molti a rendergli omaggio. Ciascuno a suo modo. C’è chi ha dato il suo nome alla propria lavanderia, chi smania per riportarne in Italia la salma, chi ha istoriato con la sua sacra effigie la propria Harley Davidson, chi giura che fu avvelenato da un’amante gelosa e chi sostiene che fu vittima della mafia. L’anziano figlio del suo compagno di giochi ne racconta l’infanzia scapestrata, trascorsa tra imprese lucignolesche e piccoli furti ai danni dei contadini locali. C’è anche chi ricorda la bizzarra vicenda di Antonio, il “matto del paese”. Negli anni sessanta vagava per il paese travestito da sceicco, da gaucho, da cosacco e da torero. Rubava i costumi alle compagnie di avanspettacolo e trasformava il paese nel suo set personale. Il suo sguardo febbrile trasformava la spelonca carsica locale nel Grand Canyon, favorendone l’immedesimazione nel grande Rudy. Valentino nasce e muore ogni volta, nella voce di chi lo racconta».
Giuseppe Sansonna
 
ore 17.00
Blood and Sand (Sangue e arena, 1922)
Regia: Fred Niblo; soggetto: dal romanzo Sangre y arena di Vicente Blasco Ibáñez e dal lavoro teatrale di Tom Cushing; sceneggiatura: June Mathis; fotografia: Alvin Wyckoff; montaggio: Dorothy Arzner; interpreti: R. Valentino, Nita Naldi, Lila Lee, Rosa Rosanova, Leo White, Rosita Marstini; origine: Usa; produzione: Paramount Pictures, Famous Players-Lasky Corporation; durata: 109′
«Divenuto il torero più popolare di Spagna dopo una tormentata gioventù, Juan Gallardo (Rodolfo Valentino) sposa l’amata Carmen (Lila Lee). Un giorno però Juan incontra Doña Sol (Nita Naldi), vedova bella e conturbante, della quale si invaghisce. Il nuovo legame, però, dura poco: la difficile situazione rende Juan inquieto, al punto che rimane ferito durante una corrida. Carmen insiste perché l’uomo abbandoni le corride, ma Juan decide di scendere un’ultima volta nell’arena per dimostrare tutto il suo valore. Quando però Gallardo vede Dona Sol con un altro uomo, si lascia uccidere dal toro in combattimento. I baci castissimi (siamo negli anni ’20) ma appassionati del sensuale Rodolfo Valentino, attorno a cui il film venne costruito su misura, divennero leggendari. Il dramma sentimentale del regista Fred Niblo (anche lui di origini italiane) venne ripreso con altrettanto successo nel 1941 da Ruben Mamoulian, con Tyrone Power al posto di Valentino e con la partecipazione di Rita Hayworth» (www.mymovies.it).
Versione originale – Didascalie in inglese
 
ore 19.00
Lo sceicco di Castellaneta (2010)
Regia: Giuseppe Sansonna; soggetto e sceneggiatura: G. Sansonna; fotografia: Valentina Summa; musica: Pippo Foglianese; montaggio: Andrea Barni, Domenico De Orsi; interpreti: con Dante Marmone e Ilaria Cangiatosi; origine: Italia; produzione: Cortolab; durata: 51′
Provincia di Taranto, terra bruciata dal sole e illuminata dal mare. Grandi canyon e paesaggi della mente che si aprono come voragini per un sogno tanto vicino quanto distante nelle possibilità, «uno scenario western prima che Hollywood inventasse il West». Le diaboliche mascalzonate adolescenziali, il retaggio avventuroso del brigantaggio, i toni kitsch e perversi del cattolicesimo meridionale. Tutto serve a plasmare la figura eccentrica e affascinante che ne forgiò il mito. Un misto di malinconia e tormento, frivolezza e seduzione, che incenerisce imperfezioni e particolarità (lo strabismo di Venere, i matrimoni falliti, la stimolante creazione intellettuale che ne ipotizza una sorta di precursore ante litteram del Neorealismo) grazie ad uno sguardo magnetico. In parallelo all’ascesa del divo Valentino, la via che sprofonda verso il baratro folle di Antonio N., professione matto del paese. Che rivive pellicola per pellicola, sequenza per sequenza, L’aquila nera, Sangue e arena, Il figlio dello sceicco, I quattro cavalieri dell’apocalisse. Le spelonche carsiche diventano brumosa steppa, Versailles muta forma e appare spiaggia dove mangiare seppie crude annaffiate di birra, il vecchio frantoio si trasforma in alcova di piacere e seduzione. Tutto comincia con i tributi che il dopoguerra scudocrociato dedica a Rudy, a partire dalla statua dell’«iconoclasta in pectore» Luigi Gheno: autore di una scultura orrenda, uno sceicco pop dagli occhi svuotati e assenti. Viene definito come il grande otre che contiene l’olio, il dono più prezioso. Un mostro «ustionato dall’altoforno spietato di Hollywood». Gualtiero Jacopetti ne approfitta e nel 1962 apre Mondo cane con un tango irrefrenabile e le immagini dell’inaugurazione di quest’opera che fanno circolare una galleria di freaks grotteschi e compiaciuti. Impomatati e languidi proprio come Rodolfo, per questo ancor più incredibili.
Ingresso gratuito
 
a seguire
Zemanlandia (2009)
Regia: Giuseppe Sansonna; soggetto e sceneggiatura: G. Sansonna; fotografia: Pina Mastropietro, Massimiliano Maggi; musica: Pippo Foglianese; montaggio: Fabrizio Ruggieri, Gianluigi Decandia; con Zednek Zeman, Pasquale Casillo, Peppino Pavone, Franco Altamura, Vincenzo Cangelosi, Giuseppe Signori, Luigi Di Biagio, Roberto Rambaudi, Franco Mancini, Maurizio Codispoti, Dario Annecchino, Lino Rabbaglietti, Attilio De Matteis, Giuseppe Baldassarre, Fernando Iannucci, Leone Rossetti, Emilio Cavelli; origine: Italia; produzione: Showlab, in collaborazione con Fly Film, con il sostegno della Provincia di Foggia (Assessorato allo Sport e al Turismo); durata: 55′
All’inizio degli anni Novanta un squadra di provincia approda in serie A e sconvolge il calcio italiano. È il Foggia di Zdenek Zeman. Il boemo allena all’uso sfacciato della zona un manipolo di sconosciuti, reclutati per un tozzo di pane nelle serie minori; e loro provocano sudori freddi a squadroni costati miliardi. Segnano e incassano valanghe di gol, divertendo e divertendosi. La squadra è una meravigliosa creatura con due padri: il vulcanico presidente Casillo e lui, l’uomo di Praga. Trench alla Humphrey Bogart, sigaretta eternamente appesa al labbro e palpebra a mezz’asta, Zeman spiazza la stampa sportiva con pause interminabili e risposte impassibili. Sottopone i giocatori a fatiche disumane, esercizi estenuanti perché in campo possano volare. Il tormento dei calciatori si riscatta nella bolgia del piccolo stadio Zaccheria, dove si consuma l’estasi domenicale. Per tre stagioni i foggiani sognano il calcio champagne fino al mesto epilogo: la zona Uefa che sfuma all’ultima giornata, l’uscita di scena del presidente Casillo, Zeman che vola verso la Capitale mentre Foggia rimane ben piantata nel tavoliere. I riflettori si spengono.
Zeman diventerà, suo malgrado, l’uomo contro il Palazzo e contro il doping. L’eroe da celebrare, commossi dall’onestà e dal rigore. Ma anche l’allenatore scomodo a cui non affidare panchine, per evitare problemi con i poteri forti. Nasceranno altre zemanlandie, ma Foggia rimarrà la più sorprendente. Una bella storia di calcio e passione.
Ingresso gratuito
 
ore 21.00
Incontro con Giuseppe Sansonna
 
a seguire
Due o tre cose che so di lui (2011)
Regia: Giuseppe Sansonna; soggetto e sceneggiatura: G. Sansonna; fotografia: Sergio Grillo; musica: Pippo Foglianese; montaggio: Domenico De Orsi; origine: Italia; produzione: Minimum Fax Media, in collaborazione con Rai Tre; durata: 52′
Dopo un lungo periodo di ostracismo da parte del calcio italiano, nella stagione 2010-2011 Zdenek Zeman è tornato ad allenare il Foggia, che aveva portato alle stelle agli inizi degli anni Novanta. Il documentario rappresenta il frutto di un “pedinamento” discreto, lungo un anno: uno sguardo inedito sulla quotidianità lavorativa di un allenatore geniale e controverso.
Ingresso gratuito

 

Date di programmazione