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Cinema Trevi: Giovanni Arpino, un romanziere cinematografico. Rassegna di film tratti da Arpino.
26 Febbraio 2009 - 26 Febbraio 2009
«Se un artista – come scrive Walter Benjamin – è responsabile non soltanto delle sue opere, ma anche di quelle che ne derivano, Giovanni Arpino può ripercorrere con una certa tranquillità il terreno sempre un po’ accidentato dove si snodano i rapporti tra letteratura e cinema e godersi la trasposizione cinematografica delle sue storie. I cineasti che si misurano con le sue trame e le sue atmosfere si rivelano infatti in primo luogo dei lettori appassionati e, senza rinunciare alla necessaria disinvoltura con cui un regista si appropria di un testo preesistente, nei successivi passaggi obbligati – dalla pagina stampata alla sceneggiatura all’immagine – riescono sempre a distillare gli umori, la sensibilità, lo sguardo di quello che si conferma (anche rivisto attraverso la mediazione dello schermo) uno dei nostri scrittori più importanti. Se si riflette sul disinvolto “découpage” di cui può dar prova, e con ottimi risultati, il cinema nei confronti dei pretesti letterari, trattati spesso come semplici “eventi narrativi” alla stregua dei fatti di cronaca, romanzi e racconti di Arpino vengono maneggiati con cura inattesa con un’insospettabile fedeltà di fondo. Cura e fedeltà che stanno tutte dalla parte dei cineasti, vista l’assoluta autonomia, ai limiti dell’indifferenza, con cui Arpino considera il lavoro di adattamento dei suoi testi: a Massimo Scaglione che lo invita ad andare sul set per assistere alle riprese di Una nuvola d’ira prodotto dalla Rai a Torino nel 1983, lo scrittore non a caso risponde: «Consideratemi un autore defunto». Affermazione obliqua, come tanta parte della sua narrativa, perché dietro la ritrosia scappa fuori il consapevole orgoglio di chi ritiene che i propri romanzi possano essere “trattati” come i classici, come Guerra e pace o I promessi sposi, che sopportano qualunque adattamento rimanendo fondamentalmente intatti. Anzi, al limite Arpino si diverte molto di più dall’altra parte della barricata, a rimaneggiare, reinterpretare, riscrivere come sceneggiatore il testo di un altro, come fa per Renzo e Luciana di Monicelli, insieme a Suso Cecchi d’Amico e Italo Calvino – partendo per l’appunto come pretesto dal racconto calviniano L’avventura dei due sposi -, che diventerà un contestato episodio del film collettivo Boccaccio ’70 (1961); mentre della prima avventura cinematografica di Arpino, La sporca guerra, il film di montaggio sulla guerra d’Algeria realizzato da Alberto Cavallone alla fine degli anni Cinquanta, resta soltanto il testo del suo commento parlato, con un passaggio all’epoca non inosservato sulle contraddizioni del partito comunista francese che in Parlamento vota a favore di De Gaulle: «Non si può dire no nelle piazze e poi dire sì nel segreto delle urne».
Ma torniamo ai suoi romanzi. Perché dunque Arpino al cinema funziona? Sicuramente per la sua capacità di passare all’interno della stessa inquadratura – sì, le sue sono “frasi”, periodi, pagine, ma si fanno immediatamente “vedere” e addirittura “annusare” in qualche caso – dal paesaggio al personaggio, in un’alternanza di piani che catturano sempre con un dettaglio concreto, capace di “far cadere l’occhio” e al tempo stesso di funzionare come un basso continuo di memoria narrativa per cucire l’insieme rilanciando continuamente attenzione, interesse, immedesimazione».
(Sergio Toffetti, Arpino, un romanziere cinematografico, in Annamaria Licciardello, Luca Pallanch, Arpino e il cinema, Cineteca Nazionale-Comune di Bra, 2008, edito in occasione della omonima retrospettiva svoltasi a Bra dal 9 al 13 aprile 2008).
 
ore 16.30
Anima persa (1977)
Regia: Dino Risi; sceneggiatura: Bernardino Zapponi, D. Risi; soggetto: dal romanzo Un’anima persa di Giovanni Arpino; fotografia: Tonino Delli Colli; musica: Francis Lai; montaggio: Alberto Gallitti; interpreti: Vittorio Gassman, Catherine Deneuve, Danilo Mattei, Anicée Alvina, Ester Carloni, Michele Capnist; origine: Italia/Francia; produzione: Dean Film, Les Productions Fox Europa; durata: 100′
«Film da focolare, che tenta di vincere i brividi dell’inverno con le ombre d’una fantasia sinuosa ma lascia aperta la porta alle spalle perché spifferi di paura vi gelino la schiena. Un thriller all’antica, che evoca aure putrescenti (Venezia!) e utilizza vecchi arnesi del giallo (topi, cigolii, ragnatele…) per rinfrescare il mito del dottor Jekyll e ripetere il gioco della doppia e tripla verità. Se preferite, un Dino Risi che sterzando dalla commedia satirica al film del terrore confida, in fraterna emulazione, al Diario d’uno schizofrenico la sua seconda nascita. Che ha da essere tanto inquietante, gotica e mitteleuropea, quanto la prima fu festosa, ironica e mediterranea. […] Sceneggiato da Bernardino Zapponi e Dino Risi, il romanzo di Giovanni Arpino che ispira il film non è tutto riconoscibile (l’azione è trasferita da Torino a Venezia e una figura è nuova di zecca), ma questo importa meno dello sforzo che Risi ha compiuto per staccarsi dai suoi modi brillanti ancor più di quanto già fece con Profumo di donna e per continuare su una tastiera diversa la sua critica sociale. Sforzo sincero e meritorio» (Grazzini).
 
ore 18.30
Profumo di donna (1974)
Regia: Dino Risi; sceneggiatura: Ruggero Maccari, Dino Risi, dal romanzo Il buio e il miele di Giovanni Arpino; fotografia: Claudio Cirillo; musica: Armando Trovatoli; montaggio: Alberto Gallitti; interpreti: Vittorio Gassman, Alessandro Momo, Agostina Belli, Moira Orfei, Lorenzo Piani, Sergio Di Pinto; produzione: Dean Film; origine: Italia; durata: 102′
«Serata d’onore di Vittorio Gassman alle prese con uno dei più riusciti personaggi della sua carriera: il capitano Fausto G., un cieco in polemica con la propria sventura, protagonista del romanzo Il buio e il miele di Giovanni Arpino. “In lui apparivano, inesplicabilmente commisti, molto di amabile e molto di odioso, molto di attraente e molto di temibile”: anche nel film Fausto G. intraprende un viaggio da Torino a Napoli, con tappe a Genova e a Roma, in compagnia di un soldatino-studente (il personaggio che dice “io”, destinato a turare le somme dell’esperienza). Il cieco sembra travolto da una smania di vivere: parla senza posa, agita il bastone, tracanna whisky, corre dietro alle prostitute; in realtà la scoperta di una rivoltella nella valigia fa intuire all’attendente che al termine del viaggio il capitano è deciso a incontrare la morte» (Kezich). Gassman fu premiato al Festival di Cannes come miglior attore: «Come la Parigi di Hemingway, Gassman è una festa mobile: in qualsiasi luogo del cinema da un po’ di tempo venga a cadere, manda in vacanza gli orecchianti e gli arruffoni, e col suo spavaldo virtuosismo afferma il dominio del grande attore che sostenta la vocazione con lungo studio e l’ardente vitalità» (Grazzini).
 
ore 20.30
Il nano più alto del mondo (2005)
Regia: Francesco Amato; soggetto e sceneggiatura: Daniela Gambaro, Francesco Apice,dal racconto Gaby la nana di Giovanni Arpino; fotografia: Maurizio Tiella; musica: Roberto Boarini; montaggio: Chiara Grizziotti; scenografia: Marinella Perrotta; costumi: Medile Siaulytytte; disegni animati: Magda Guidi; interpreti: Valentina Maragnani, Luca Fagioli, Enrico Curatola, Wendy Curatola, Armando Curatola, Cristina Curatola, Tommaso Spinelli; organizzazione: Anna Frandino; produzione: Csc; durata: 16′
Piccolo Tarzan è un nano di 1 metro e 25 centimetri e col suo numero di boxe contro un orango è l’attrazione principale del circo Harlem. Ha il successo e l’amore di Gaby, una compagna nana che lavora con lui. Ma all’improvviso per una strana malattia Piccolo comincia a crescere d’altezza, perdendo d’un colpo tutto ciò che aveva faticosamente costruito, proprio a causa dell’eventualità di diventare “normale”. «Il racconto che nasce da questo incipit, Gaby la nana, è uno dei più belli che abbia letto nella vita. Degno dei più grandi scrittori di racconti del mondo, Maupassant e Babel’, Carver e Cechov. Almeno questa fu la mia sensazione quando il mio amico sceneggiatore Francesco Apice me lo propose per un adattamento cinematografico. Lo trovai talmente bello che non riuscivo a spiegarmi il fatto che quasi nessuno lo avesse letto e che anche i grandi conoscitori di Arpino ne avessero un’idea piuttosto vaga. Fu molto curioso. Avevo trovato Bra, il mio paese, a Roma. Ero andato alla ricerca di un racconto da adattare al mio progetto di cortometraggio, saggio del secondo anno al Centro Sperimentale di Cinematografia, ma non avevo trovato nulla che mi convincesse davvero. Poi una domenica Francesco mi disse che aveva comprato dei libri a Porta Portese, che voleva che ci dessi un’occhiata, soprattutto a Gaby. A me non sembrò vero che, dopo aver letto racconti da tutto il mondo, avessi trovato in un autore del mio paese l’opera giusta per il mio lavoro. Mi diedi del cretino («perché non c’ho pensato prima!») e cominciai a lavorare sul testo» (Amato). Amato ha esordito con il lungometraggio Ma che ci faccio qui!.
 
a seguire
La suora giovane (1964)
Regia: Bruno Paolinelli; soggetto: dal romanzo omonimo di Giovanni Arpino; sceneggiatura: B. Paolinelli; fotografia: Erico Menczer; musica: Teo Usuelli; montaggio: Piera Bruni; interpreti: Laura Efrikian, Jonathan Elliot, Cesarino Miceli Picardi, Maria Sardoch, Marcella Rovena, Aide Aste; origine: Italia; produzione: Ager Film, Film Coop., D’Errico Film, Italspettacolo; durata: 90′
«Un impiegato quarantenne si innamora di una novizia che incontra tutte le sere alla fermata del tram: troverà il modo anche di parlarle, ma i suoi dubbi rischiano di mettere in crisi il rapporto. Fedele e pudico adattamento del romanzo omonimo di Giovanni Arpino, sceneggiato dal regista e ambientato in una Torino deserta e notturna. Come il libro, il film scava nella psicologia dei due protagonisti, mettendo a confronto l’ingenua concretezza contadina della suora con le insicurezze piccolo-borghesi dell’uomo e lasciando allo spettatore il compito di tirare i fili di una storia d’amore in cui i due “fidanzati” nemmeno si sfiorano. Il miglior ruolo della Efrikian. Presentato fuori concorso al festival di Venezia [1964], in un montaggio diverso da quello poi distribuito in sala» (Mereghetti). «Paolinelli ha girato il suo film con misura e semplicità, seguendo passo passo il libro, in un’aria di difesa, con molte ombre, molti silenzi, molta crepuscolare intimità. Laura Efrikian è assai brava nella parte difficile della suora, tutta concentrata in minime espressioni del voto e degli occhi. Jonathan Elliot è un efficace e vero Antonio» (Moravia).
 
a seguire
Renzo e Luciana (ep. Boccaccio ’70, 1961)
Regia: Mario Monicelli; soggetto: dal racconto di Italo Calvino L’avventura dei 2 sposi; sceneggiatura: Giovanni Arpino, I. Calvino, Suso Cecchi D’Amico, M. Monicelli; fotografia: Armando Nannuzzi; musica: Piero Umiliani; montaggio: Adriana Novelli; interpreti: Marisa Solinas, Germano Giglioli; origine: Italia/Francia; produzione: Concordia Compagnia Cinematografica, Cineriz, Francinex, Gray Film; distribuzione: Cineriz; durata: 43′
«Una Milano indaffarata, ansiosa, convulsa: delle balere piene di giacche grigie, degli stabilimenti balneari trasformati in distese di carne, dei cinema rigurgitanti di volti ansiosi e di occhi sognanti. Su questo sfondo che certa sociologia moderna definirebbe “da alienazione” dominato dai casermoni e dai grattacieli si svolge la stupenda storia di Renzo e Luciana. Non è per caso che i nomi richiamano quelli dei protagonisti dei Promessi sposi: allora era la prepotenza aperta, oggi è la costrizione sottile e indefinita; allora era il capitalismo medievale, oggi è il neocapitalismo; allora era il feudatario, oggi è il dirigente industriale. Allora si arrivava a piegare la volontà degli uomini, anche ad impedire l’amore: oggi lo stesso. Questo il senso “ideologico” dell’episodio di Mario Monicelli. Ma non è da credere che il regista abbia espresso il succo della sua storia con tale schematismo: Renzo e Luciana sono due giovani che vogliono comprendersi in una civiltà che marcia sempre più verso l’incomprensione; la verità loro e della loro storia è di ordine poetico e “quindi” di ordine ideologico. La pacatezza con cui il regista ha mostrato il volto di una Milano industrializzata, le immagini di una civiltà antindividualista, ha una forza che nessuna polemica “diretta” avrebbe avuto. Le immagini finali della storia con i due protagonisti che credono di avere vinto con la loro piccola ribellione, essendosi invece forse per sempre legati al condizionamento di una “civiltà” acquistata a rate, resteranno a lungo nella nostra memoria» (Micciché).

 

 

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